Libero, 4 maggio 2018
Bologna, la musulmana che vende veli alle italiane
Dalla religione al business. Il velo approda in vetrina e si affianca alla moda made in Italy. È l’attività di una giovane musulmana di 23 anni che ha aperto di recente in via Borgo di San Pietro, nel cuore di Bologna, il primo negozio d’abbigliamento dedicato alle donne islamiche, sotto l’insegna «Hijab Paradise». In vetrina e negli scaffali, si trovano i classici abiti lunghi arabi, tuniche, pantaloni, camicie e soprattutto lo hijab (e relative spillette), tipico velo usato per coprire il capo lasciando il viso scoperto alle fedeli islamiche, proposto in una decina di diverse stoffe e colori. La titolare Keltoum Kamal Idrissi, che è nata in Marocco e vive a Cesena da quindici anni (dice di sentirsi italiana anche se non ha ottenuto la cittadinanza), ha puntato tutto sui capi da giorno e da cerimonia cercando di mantenere bassi i prezzi per incrementare il numero dei clienti. L’apertura del negozio ha sollevato qualche polemica. Qualcuno ha ricordato che avrebbe comunque dovuto pagare tutte le tasse e non avere incentivi. Keltoum, che a Cesena è anche referente della sezione Giovani musulmani italiani, ha subito sottolineato: «Le tasse le ho sempre pagate, incentivi pubblici non ne ho avuti perché non ho la cittadinanza e sono esclusa dai bandi: in questo negozio ho messo i miei risparmi». Come vanno gli affari a più di un mese dalla apertura della sua nuova attività? «Benissimo. Lavoriamo anche la domenica e stiamo valutando l’ipotesi di tenere aperto anche nei giorni festivi, visto l’interesse. Questo negozio, credo unico nel suo genere, risponde a un bisogno, quello cioè delle donne musulmane di poter toccare con mano gli abiti prima di acquistarli. Questi capi infatti si comprano solitamente online. La mia idea è quella di vendere abiti che rispettano il credo musulmano ma che allo stesso modo abbiano un look anche occidentale». Come mai proprio a Bologna? «Prima di aprire il negozio di abbigliamento musulmano ho analizzato le indagini di mercato e ho capito che Cesena sarebbe stata troppo piccola per avviare una simile attività. Ho scelto Bologna anche perché è una città bellissima». Come le è venuto in mente di mettersi nel commercio? «Mi è sempre piaciuta la moda. Mi sono diplomata cinque anni fa alla scuola di ragioneria, ma anche quando studiavo ho sempre lavorato. Da qui è nata l’idea di aprire un mio negozio. Devo ammettere che qui in Italia non è stato facile. Per via soprattutto della burocrazia». Qual è la sua clientela? «Soprattutto donne. La cosa curiosa è che vengono spesso accompagnate dai mariti. La metà delle clienti sono italiane perché in questo periodo c’è la moda degli abiti e dei pantaloni lunghi e qui trovano cose diverse. Oppure vengono per comprare abbigliamento da regalare magari a un’amica musulmana. Poi ci sono le universitarie. In questo primo mese ho fatto buoni affari, ma meglio non dire le cifre…». Vende anche il burqa? «No quello non c’è, perché non si sposa con la mia filosofia. Io e la mia collega siamo giovani musulmane e ci sentiamo italiane. Per cui quel capo che copre il viso lo abbiamo escluso. Io ho iniziato ad indossare lo hijab solo tre anni fa ma per mia scelta. Le mie tre sorelle infatti non lo mettono, mia madre sì. I miei genitori mi hanno sempre lasciata libera di decidere». Dove acquista i vestiti? «Li compro in Turchia, il paese che è all’avanguardia in questo settore. Invece secondo me la cosa ottimale sarebbe creare qui una produzione e quindi la vendita. È il mio sogno, ma per ora devo ragionare in piccolo e misurare le risorse». Quanto costano in media gli abiti musulmani? «Dipende dai capi. Io vendo anche quelli per cerimonie. Quelli da giorno variano dai 15 ai 30 euro. Non sono alti, devo farmi il giro…». Qualcuno l’ha contestata? «Sì, non tutti l’hanno presa bene. Hanno contestato il fatto che volevo aprire un negozio. Hanno identificato in me solo la musulmana, senza vedere il gesto di una giovane ragazza italiana intraprendente. Ci sono state battute poco carine dietro alle tastiere, ma alla fine chissenefrega, sono la minoranza».