Libero, 4 maggio 2018
Parlamentari costosi e nullafacenti
Che bella cosa la trasparenza. Ma certi fatti sarebbe meglio non saperli. Al Senato, invece, ci tengono a essere una casa di vetro. Meritorio, per carità. Hanno addirittura un contatore, dove il cittadino può verificare quanto abbiano lavorato i rappresentanti del popolo. In questa legislatura, che stenta a carburare, certi numeri non meriterebbero pubblicità. Il travaso di bile è assicurato. Però, se proprio ci tenete a conoscere la verità, eccola: in due mesi, l’aula di Palazzo Madama ha lavorato esattamente 14 ore e 27 minuti. Vogliamo farci ulteriormente del male? Prendiamo il bilancio previsionale 2018: 60 giorni di funzionamento della Camera alta costano al contribuente 91 milioni di euro. Il che significa, dividendo, circa 6,5 milioni di euro all’ora. Però ci hanno spiegato che, in attesa della formazione del governo, è la Commissione speciale a smazzarsi il duro lavoro parlamentare. Come no: l’organo presieduto dal grillino Vito Crimi ha proprio osservato ritmi da «miniera». In otto settimane si è riunita per quattro ore. Due ore al mese. TUTTI IN BANCA Alla Camera si viaggia alla media di 3,5 giorni di lavoro al mese. Ogni seduta – in totale sono state sette – è costata al cittadino 23 milioni di euro. E non ha prodotto leggi, ma soltanto poltrone: nove segretari d’aula, oltre al presidente Roberto Fico e al resto dell’ufficio di presidenza. L’ottava seduta è in calendario per lunedì prossimo, dopo 18 giorni di sospensione. Il Transatlantico è vuoto, la Buvette deserta, la sala lettura popolata da ex parlamentari che, spaventati dal taglio ai vitalizi, presidiano il territorio in attesa di sapere il proprio destino. Se cerchi deputati, li trovi in coda allo sportello interno del Banco di Napoli. Attratti dal mutuo a tasso variabile. La legislatura dura? Probabilmente ne sa più il consulente del ramo crediti che il Quirinale. Chiariamo: la questione non è la classe politica sfaticata. Il problema è far partire la macchina legislativa. Per innestare la marcia vanno formate le Commissioni parlamentari. Ma queste non possono cominciare a lavorare senza che ci sia un governo in carica. Così dicono la prassi e la dottrina. Eppure ci sono stati tre precedenti nella storia (1976, 1979 e 1992) in cui, a inizio legislatura, le Commissioni sono state formate prima della fiducia all’esecutivo. Il caso è stato sollevato dalle capigruppo di Forza Italia Mariastella Gelmini e Anna Maria Bernini. Sul tema c’è anche un dossier preparato dall’ufficio studi della Camera. In particolare è interessante il precedente del ’92. Quando Montecitorio iniziò a lavorare sulle leggi senza attendere il via libera da Palazzo Chigi. Insomma, ai tempi di Craxi e De Mita si faceva. QUESTIONE DI PRASSI All’inizio della scorsa legislatura furono i grillini a sollecitare l’attivazione delle Commissioni. Lo ricordano i tecnici della Camera. Ma l’allora presidente Laura Boldrini rispose picche, ricordando «l’esistenza di una prassi consolidata nel nostro sistema costituzionale, secondo la quale nei periodi di crisi di governo, si interrompe l’attività legislativa». Oggi i Cinquestelle, che alla Camera esprimono il presidente, non si ribellano più a questo stato di immobilismo (ben) retribuito. Volevano aprire le istituzioni come una scatola di tonno. Lo hanno fatto. E dentro ci hanno trovato il sashimi. riproduzione riservata 60 I giorni di inattività del Senato 91 I milioni bruciati in 2 mesi di ozio a Palazzo Madama 1.000.000 Un milione di euro: quanto spesiamo ogni ora per le indennità dei parlamentari 3,5 I giorni lavorati ogni mese alla Camera 2 Le ore lavorate ogni mese dalla Commissione speciale (4 in due mesi) 6,5 I milioni che ci è costata ogni ora di attività del Senato. In due mesi Palazzo Madama ha lavorato 14 ore e 27 minuti 7 Le sedute della Camera in due mesi 23 I milioni che ogni seduta della Camera è costata ai cittadini RENATO FARINA nnnA proposito di carosello di damerini e di veti al Quirinale. Non rassegniamoci. Quando chi ha il potere di dare il buon governo al popolo non si decide a decidere, il popolo ha il diritto di affamarlo finché non fa il suo dovere. Un grandioso precedente morale e giuridico ci viene dalla storia della Chiesa. Attiene all’elezione del Papa negli anni tra il 1268 e il 1271, allorché a Viterbo fu istituito il conclave, che significa cum-clave: insomma i cardinali vennero chiusi dentro in un angusto palazzo arcivescovile, con le porte sbarrate a doppia mandata e le finestre chiuse, fino all’annuncio trasmesso con fumata bianca. Questo tipo di pungolo può essere trasferito in ambito laico e repubblicano? Se vale per le cose di Dio, tanto più la pressione riteniamo sia legittima quando si tratti di più prosaiche questioni temporali. Ecco che quell’evento viterbese suggerisce un’idea assai pratica da applicare immantinente al Parlamento italiano e che sveltirà sicuramente le procedure non solo stavolta ma in eterno, come accaduto nella Chiesa per i conclavi successivi. GUELFI E GHIBELLINI Quando il 29 settembre del 1268 defunse Clemente IV, i cardinali cui toccava individuare chi fosse tra loro il successore erano 17, divisi in due partiti. A loro volta spezzati in sotto fazioni. I filo francesi o guelfi erano 8; i germanofili o ghibellini erano 9. Lo stallo era totale. Lo Spirito Santo non sapeva neppure lui che pesci pigliare, un po’ come Mattarella oggi. Non si trovava l’accordo, e pareva che comunque l’asse fosse spostato verso Colonia e Aquisgrana, poiché quel partito era dotato di un seggio in più. Ed ecco che due porporati filotedeschi perirono, e la frittata si ribaltò. Sia chiaro, nessuno aveva numeri sufficienti, perché per eleggere il Papa occorrevano i due terzi dei voti, e nessuno riconosceva il diritto dell’altra parte a scegliersi il premier, pardon il Papa. I francesi dicevano: la coalizione dei cardinali tedeschi è solo di comodo, in realtà sono due sottopartiti distinti. Al che i tedeschi replicavano: non riuscirete a dividerci tra noi, siamo di più e tocca a noi scegliere un nome e su di esso dovrete convergere, sul programma ci si metterà d’accordo. Insomma un pasticcio. Infine ideona. Un Papa «tecnico» per così dire, un nome terzo, un Pontefice di scopo. Il cardinale Ottaviano degli Ubaldini propose per la cattedra di Pietro un santo frate, il priore generale dei Servi di Maria, padre Filippo Benzi, il quale, appena avvisato, fuggì e si nascose in una grotta del Monte Amiata. Anche fra Bonaventura di Bagnoregio, successore di san Francesco alla guida dell’Ordine, e filosofo da tutti amato, pare abbia respinto l’offerta. Intanto fuori dal Palazzo arcivescovile la situazione era di totale anarchia, assassinii e rivolte si susseguivano. E i cardinali a ciondolare litigiosi e irresoluti. Dopo due anni di tira e molla, di appelli alla responsabilità, e risposte tipo quello-è-un-cardinale-da-bunga-bunga, questo-è-servo-degli-imperialisti, dentro continuava il cabaret e fuori la folla era imbufalita. Così il podestà Alberto di Montebuono e il capitano del popolo Raniero Gatti, chiusero a chiave i cardinali e gli ridussero le vettovaglie. Ma quelli non trovavano comunque il nome giusto. Allora scoperchiarono il tetto e tagliarono ancora la fornitura di cibo. La resistenza dei porporati s’incrinò: lo spirito è forte ma la carne è debole, specie senza bistecche. Infine, sfiniti i presuli nominarono una commissione paritaria di sei cardinali. In due ore, il 1° settembre 1271, dopo 1006 giorni di sede vacante, l’accordo ci fu. Risultò eletto Gregorio X, al secolo Tebaldo Visconti. CINQUE MOSSE Che lezione trarre per il presente da quegli antichi fatti? Oltre che radunarsi per ridurre i vitalizi degli ex, i capi di Camera e Senato, potrebbero sveltire le danze infinite con due provvedimenti. Il primo, in cinque mosse. 1) Convocare i rappresentanti del Popolo a Palazzo Montecitorio in seduta congiunta; 2) assegnare al capo dello Stato un piccolo appartamento indipendente nel medesimo edificio; 3) un pensionato estratto a sorte chiude a chiave il portone del citato Palazzo; 4) collegamento televisivo 24 ore su 24 come al Grande Fratello, cibo ridotto come all’Isola dei famosi; 5) apertura delle porte solo a fiducia accordata. Mi si fa notare che questa trafila non è conforme alla Costituzione, e allora passo al piano b. Il quale è invece perfettamente in linea con l’autodichìa delle Camere, per cui sono esse stesse a decidere su indennità e sostentamenti. Ecco l’idea. Finché non c’è un governo e il Parlamento quindi non lavora, si sospendano emolumenti e altri benefizi. Niente più erogazioni di 13mila euro mensili per i deputati e 14mila per i senatori. I quali restituiranno anche i denari finora percepiti per girare i pollici e mulinare twitter. Il popolo, chiamato a referendum via internet, approverebbe alla grande. Fate in fretta comunque, se no, come a Viterbo, vi scoperchiano il tetto, e vi rovesceranno in testa proprio quello che state pensando.