La Stampa, 4 maggio 2018
I cinesi vogliono invesatire su Eataly
Il fondatore Oscar Farinetti siede in ultima fila silenzioso, «come dovrebbe fare Renzi» sibila, e lascia spazio al figlio Francesco, ad di Eataly per l’Italia e al supermanager del gruppo, Andrea Guerra. L’occasione è la presentazione del primo bilancio consolidato in vista della quotazione in Borsa tra un anno. I numeri li illustra Guerra: «465 milioni di fatturato e 25 di ebitda nel 2017 puntando a superare i 700 di fatturato ed i 60 di ebitda nel 2020. Quest’anno siamo cresciuti del 20 per cento e niente può limitarci se non la nostra capacità di scegliere i posti giusti».
L’ambizione nel lungo periodo è di un Eataly in ogni capitale del mondo e l’elenco delle aperture già in programma è da capogiro: Verona l’ultimo in Italia, Toronto, Parigi in franchising con Galeries Lafayette, Londra a Bishopsgate, Emirati Arabi, secondi punti a Istanbul e San Paolo. Grande attenzione agli Stati Uniti: Las Vegas, Dallas, San Francisco, Silicon valley, Washington e Miami. Due le possibili chiusure non specificate da Guerra, che difende Fico a Bologna: «Ha aperto da 5 mesi e ci sono andati 1 milione 250 mila persone, prevediamo di fatturare 50 milioni nel primo anno. È un progetto sperimentale, ci sono cose da migliorare, ma non vedo criticità straordinarie».
Per ora l’azionariato di Eataly è per circa il 60 per cento controllato dalla famiglia Farinetti, per il 20 dal fondo Tamburi, per il 20 da Luca Baffigo e nei prossimi mesi per il 3 da Guerra, ma come rivela Francesco Farinetti: «Stiamo discutendo con i colossi tecnologici cinesi sia per aprire dei punti in Cina sia perché investano in una minoranza di Eataly ampliando il gruppo». Intanto sono avviate una partnership con Microsoft per spingere con l’intelligenza artificiale sulle vendite online e un riordino dei negozi affinché somiglino a dei mercati.