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 2018  maggio 03 Giovedì calendario

Mussolini e Ungaretti

Nel 1923 esce a La Spezia la raccolta di liriche Il porto sepolto di Giuseppe Ungaretti, già soldato semplice sul fronte del Carso e poi in Francia nella Champagne. Bene, forse non tutti sanno che a curare l’edizione e a scriver l’introduzione del libro fu Benito Mussolini, aureolato di gloria dopo la Marcia su Roma. La richiesta venne da Ungaretti stesso che aveva indirizzato al nuovo capo del Governo una lettera in data 5 novembre 1922. In essa il Duce veniva celebrato come un vero e proprio «signore del Rinascimento», perché, a un tempo, grande condottiero nonché politico e mecenate. I due, del resto, si volevano bene: Mussolini apprezzava nella poesia ungarettiana una limpida concisione carica di illuminanti suggestioni e lo scrittore lucchese- nato ad Alessandria d’Egitto da una famiglia di emigrati di origine contadina- vedeva nel Duce l’Uomo (maiuscolo, ovviamente!) che avrebbe rinnovato l’amatissima Italia. L’amicizia era nata nel 1919 quando Ungaretti, allora a Parigi (dove si sarebbe sposato con la francese Jeanne Dupoix), aveva cominciato a collaborare, come corrispondente, al Popolo d’Italia. E il vicolo si sarebbe via via rinsaldato. DATE CRUCIALI Date “cruciali” il 1925 quando Ungaretti firma il Manifesto degli intellettuali fascisti e il 1942 quando il poeta, rientrato dal Brasile, dove aveva insegnato Letteratura italiana all’Università di San Paolo, viene nominato Accademico d’Italia e, per chiara fama, professore di Storia della letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università di Roma. Il che, nel dopoguerra, gli costò qualche problema con le commissioni “epuratrici”: ma poi l’autore dell’Allegria e di Sentimento del tempo venne riconfermato nell’insegnamento, le sue angosce ebbero fine e il suo nome, ripulito dalle incrostazioni fascista, si riconfermò tra quelli che ben figuravano nella più innovativa cultura del Novecento. L’interessante saggio di Silvia Zoppi Garampi, proposto dalla Salerno (Le lettere di Ungaretti. Dalle cartoline in franchigia all’inchiostro verde, introduzione di Leone Piccioni, pp. 146, euro 14), ci consente ora di aggiungere alcuni tratti significativi al profilo dell’uomo e del poeta attraverso una serie di argomentate ricerche e riflessioni sul suo vastissimo epistolario. Il carteggio va dal 1909 al 1970, l’anno della morte di Ungaretti: ed è da allora che l’imponente Fondo ungarettiano, custodito nell’Archivio “Alessandro Bonsanti” di Firenze, offre occasioni di ricerca e di scoperta. La Zoppi, attingendo a questo materiale ma anche esplorando documenti inediti e rari, lavora su alcuni nuclei tematici (“Il porto sepolto” nelle lettere dal fronte; “Ti dono la mia ultima poesia, dedicato all’epistolario tra Ungaretti e Giuseppe De Robertis”; Ungaretti e l’arte: umanità, bellezza e libertà nelle lettere a Leone Piccioni), con scrupolo filologico. Ora, sono certamente importanti le pagine dedicate a quel laboratorio poetico di Ungaretti che prende forma dai contatti con le avanguardie francesi (un nome su tutti: Apollinaire) negli anni precedenti la Grande Guerra, dalla collaborazione, a partire dal 1915, con i principali “interventisti della cultura” italiani (Papini, Prezzolini, Soffici, Carrà, Palazzeschi, Serra, De Robertis…) e infine dall’esperienza “formativa” dal conflitto. Ed è più che giusto ricordare anche l’impegno consacrato dal critico Leone Piccioni alla rilettura e ad una nuova valorizzazione di Ungaretti, a partire dagli anni del secondo dopoguerra fino alla morte. Ma quel che più ci colpisce è “l’uomo di pena” (così si definiva il poeta), che pare continuamente voglioso di sentirsi amato e ammirato: ambisce a farsi conoscere quando è agli esordi, quando poi è già noto rivendica appassionatamente la propria grandezza e ci tiene a proclamare di continuo originalità creativa, fervore patriottico, onestà morale e intellettuale, indefessa laboriosità. Insomma, che nessuno metta in discussione i suoi meriti! Così, a fine ’22, quando insieme alla consorte viene licenziato («per ragioni di servizio») dall’Ufficio Stampa del Ministero degli Esteri, scrive indignato a Mussolini: «Da 9 anni servo il mio paese. L’ho servito in trincea, l’ho servito all’estero (…). Come poeta il mio valore è noto. Non credo che ci sia nessun altro che dopo D’Annunzio possa starmi di fronte. Il governo nazionale significa condanna alla fame di quanti hanno intelligenza? Trionfo dei buffoni, delle carogne, degli arrivisti? (…) Mendicherò per le strade della mia crudele Italia…» (pp.25-26). No, non medicherà: figuriamoci se il Duce l’avrebbe permesso! E non lo avrebbe permesso nemmeno De Gasperi! Nel 1946, infatti l’epurato Ungaretti gli si rivolse per esser reintegrato nella sua cattedra universitaria. La lettera (pp. 26-28) è un ardente rivendicazione di meriti accademici e poetici. Tutti glieli riconoscono. Nessuno – «dai liberali ai comunisti» – può mettere in discussione la sua grandezza. Dunque, sia fatta giustizia. «Chi si loda si imbroda»? Ungaretti non lo pensava ed esaltava la propria «eccezionale competenza» di docente di letteratura e più che mai le proprie glorie letterarie. Come potevano, dunque, il Presidente e il Consiglio dei Ministri non restituire al «maggior poeta vivente» quel che gli spettava?