Huffington Post, 2 maggio 2018
Il reddito di cittadinanza funziona solo in Alaska
Bisogna trovarsi d’accordo sui temi. È questa la litania ripetuta dai politici italiani mentre si affannano a cercare alleanze per dare un governo all’Italia a quasi due mesi dal voto. Per azzerare le divergenze e firmare il “contratto alla tedesca” i partiti dovranno diluire o mettere da parte alcuni cavalli di battaglia con cui siamo stati martellati negli ultimi mesi di campagna elettorale. Tra questi c’è la bandiera grillina del reddito di cittadinanza che, nell’ambito della fusione a freddo con il Pd o la Lega, dovrà ridimensionarsi nel salario minimo garantito e nelle politiche attive di sostegno al reddito. Un peccato o un sollievo?
Se da una parte il reddito di cittadinanza, secondo gli osservatori, ha portato nei sacchi grillini milioni di voti, dall’altra rappresenta una bella grana per chi dovrà farlo funzionare facendo tornare i conti.
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Difficoltà incontrate da più realtà che hanno sperimentato la misura di sostengo al reddito.
Nei giorni scorsi il governo finlandese ha smentito la notizia circolata in tutto il mondo della sospensione del progetto pilota biennale che dà a 2mila disoccupati 560 euro al mese, senza alcun vincolo. L’esperimento è costato alla Finlandia 20 milioni e secondo le previsioni, la sua estensione anche a coloro che hanno un lavoro (prevista dopo il 2018), peserà sulle casse statali per 10 miliardi. Per questo motivo è circolata la notizia della chiusura anticipata del reddito di cittadinanza, prontamente smentita da Helsinki che ha confermato la prosecuzione del progetto fino alla fine dell’anno. Poi, analizzati i risultati, saranno valutate le ipotesi sul tavolo: prolungamento dell’esperimento, estensione diretta all’intera cittadinanza oppure sostituzione del reddito con altre misure meno costose come l’universal credit, simile a quello introdotto nel 2013 in Gran Bretagna. In Europa infatti, Uk, Francia, Germania e Danimarca propongono varie declinazioni del reddito minimo garantito o forme alternative di sussidio per i disoccupati o per il contrasto alla povertà.
Insomma, l’esempio della Finlandia conferma quanto sia costoso passare dalle parole ai fatti e soprattutto dagli esperimenti alle riforme strutturali. Lo sanno bene anche coloro che, per esempio, in Toscana hanno provato a introdurre qualche progetto pilota che avrebbe dovuto svolgere il ruolo di precursore, in attesa che il M5s arrivasse alla guida del Paese.
Tra questi, Filippo Nogarin, sindaco pentastellato di Livorno, città dove, a suo dire, le idee del Movimento sono diventate realtà. Presentato in pompa magna nel 2015, il reddito di cittadinanza locale ha disegnato nel cielo livornese una parabola calante a causa delle scarse risorse a disposizione che hanno costretto la giunta di Nogarin a cambiare ogni anno le carte in tavola.
Nel 2016 cento famiglie in difficoltà hanno ricevuto 500 euro al mese per sei mesi. I requisiti richiesti? Essere residente nel Comune da almeno 5 anni, avere un’età compresa tra i 35 e il limite della pensione, essere disoccupato e avere un Isee familiare non superiore a 6.530 euro. Passati i sei mesi, il reddito di cittadinanza locale è tornato nel 2017, con una platea più ampia, ma un assegno molto più leggero: i 358 destinatari hanno ricevuto un assegno tra gli 80 e i 220 euro a seconda della composizione familiare. Scaduti i nove mesi finanziati, il reddito di cittadinanza locale è stato sospeso, ed è tornato sotto i riflettori soltanto nei giorni scorsi quando la Giunta Nogarin ha pubblicato il nuovo bando per il 2018, cambiando ancora una volta misura e requisiti. Entro il 18 maggio i disoccupati livornesi potranno fare domanda per ricevere 200 euro al mese per un anno. Per avere diritto all’assegno destinato a 170 famiglie, i requisiti sono: essere residenti a Livorno da almeno 5 anni, disoccupati senza ammortizzatori sociali, e con un Isee familiare non superiore ai 3mila euro. Da parte di Nogarin dunque c’è l’impegno a far sventolare su Livorno la bandiera grillina del reddito di cittadinanza, ma la risicata coperta economica non ha ancora permesso alla Giunta labronica di trovare la quadra e dare dignità strutturale alla misura.
L’appuntamento con la realtà è stato spiacevole anche per il presidente della Regione, Enrico Rossi, che ha proposto la misura di sostegno sotto le spoglie di un’indennità di partecipazione, cuore pulsante del Piano per l’occupazione che vale 29,1 milioni. La prima fase consiste nel finanziare con 500 euro al mese per sei mesi i disoccupati di lungo corso che nel frattempo dovranno partecipare a corsi di formazione pagati dal Piano regionale e infine potranno essere assunti dalle aziende grazie agli incentivi, da mille a 8mila euro.
La prima versione del Piano toscano stanziava 14,3 milioni per l’assegno, 7,9 milioni per le agenzie formative e altri 6,9 milioni per le aziende, ma la prima versione è stata presto sconvolta a causa dell’assalto ai centri per l’impiego da parte dei disoccupati che chiedevano l’assegno. Il peccato primordiale è stato il meccanismo del “chi arriva prima meglio alloggia”, che ha scatenato la corsa ai centri per l’impiego invasi da oltre 6.700 disoccupati in 72 ore.
Un assalto che ha costretto la Regione a rimodulare i finanziamenti del Piano per poter mantenere la promessa di accogliere tutte le domande. Così i soldi per l’assegno salgono da 14,3 milioni a 20 milioni, mentre quelli per la formazione scendono da 7,9 milioni a 4,5, come accade per gli incentivi alle imprese, passati da 6,9 milioni a 4,5. La Regione toscana dunque ha deciso di placare le polemiche assicurando l’assegno da 500 euro a tutti i richiedenti, ma per farlo ha tagliato di circa il 40% le risorse destinate alla formazione e alla ricollocazione dei disoccupati, le due fasi cruciali per raggiungere lo scopo del Piano: trovare un lavoro ai disoccupati. Passa così il principio che è meglio un assegno oggi, piuttosto che un lavoro domani.
Il comun denominatore dei progetti elencati è lo stesso: il problema delle risorse. Elemento che pone una pesante ipoteca sulla possibilità, in un Paese fragile come l’Italia, di introdurre il reddito di cittadinanza come riforma strutturale.
La riprova arriva dall’unico Paese al mondo in cui la misura esiste e funziona da anni: l’Alaska. Dagli anni ’80, lo Stato versa un reddito a tutti i cittadini (nel 2017 erano 896 euro a testa) attingendo da un fondo che raccoglie parte degli incassi derivanti dall’industria petrolifera, una sorta di ricompensa in cambio delle risorse naturali del territorio. Il segreto del successo? Avere a disposizione molti soldi (quelli delle multinazionali del petrolio) da distribuire ad un numero ridottissimo di persone: 739mila abitanti.