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 2018  maggio 01 Martedì calendario

Siamo sul podio del campionato d’invecchiamento

Ai mondiali dell’invecchiamento della popolazione, l’Italia è sul podio: siamo superati solo dal Giappone. Il 22% dei residenti ha almeno 65 anni, quasi il 7% almeno 80 anni, dato più elevato in Europa. Sono livelli senza precedenti storici, esito di un “successo demografico”: vivendo più a lungo e facendo meno figli, avere una struttura per età più anziana è conseguenza inevitabile. Ulteriore misura del successo demografico italiano è il passaggio, molto veloce, da Paese prevalentemente di emigrazione, a Paese che attrae immigrati. Stiamo affrontando la sfida di combinare le due novità, invecchiamento della popolazione e immigrazione, che presenta anche delle opportunità tra loro connesse. 
Vediamo tre aspetti.
Primo, l’immigrazione tende a “rimpiazzare” i buchi lasciati dal calo delle nascite - replacement migration, secondo termine coniato dall’Onu. Non a caso l’immigrazione in Italia esplode a partire dagli anni 80 e 90 del secolo scorso, cambiando in modo significativo la composizione della popolazione della penisola. Questo meccanismo di rimpiazzo risponde anche alla domanda delle imprese e a sua volta rallenta l’ulteriore, e inevitabile, invecchiamento. L’immigrazione aumenta la velocità del cambiamento della popolazione: senza movimenti migratori il cambiamento sarebbe lento, quindi con sfide minori per l’integrazione ma anche minori opportunità di innovazione. Con migrazioni significative la popolazione cambia più dinamicamente, soprattutto in alcune aree del Paese ma pone sfide chiare per l’integrazione, soprattutto nel lungo periodo, dei migranti.
Secondo, a causa dell’invecchiamento della popolazione e degli elevati livelli di benessere raggiunti, aumenta la domanda di lavoro per servizi di cura alla persona e di aiuto al funzionamento delle famiglie. In un Paese come l’Italia, caratterizzato da una centralità delle famiglie nella cura delle persone bisognose, ma anche dalla presenza sempre più marcata delle donne sul mercato del lavoro, esplode la domanda di colf, badanti e nannies, baby-sitter stabili. Si tratta di lavori importanti per ogni famiglia, spesso molto duri sia fisicamente sia dal punto di vista emotivo. Poco riconosciuti, sia dal punto di vista economico sia, purtroppo, dal punto di vista sociale. Non sorprende quindi che la richiesta boom di collaboratori domestici sia stata prevalentemente coperta da lavoratori stranieri. Già a metà degli anni 90, nei dati Inps, oltre centomila lavoratori domestici erano extracomunitari, sicuramente una sottostima della realtà. Con la regolarizzazione del 2012, il numero complessivo di lavoratori domestici supera per la prima volta il milione di unità – per poi calare progressivamente fino alle circa 870mila unità registrate nel 2016. Le donne sono l’88%. Più appropriato quindi usare il femminile, e parlare di lavoratrici domestiche per meglio descrivere questo gruppo, al 75% straniero. Secondo le elaborazioni dell’Associazione nazionale famiglie datori di lavoro domestico, la Romania è la nazione più rappresentata (21%), seguita da Italia (17%), Ucraina (9%), Filippine (7%) e Moldavia (6%). La quota italiana aumenta negli ultimi anni, dopo la crisi, e le collaboratrici domestiche italiane sono comunque presenti in una maggior quota nei livelli maggiormente retribuiti.
Terzo, ogni lavoratrice domestica contribuisce al funzionamento e al benessere una o più famiglie italiane. Queste lavoratrici rumene, ucraine, filippine, moldave, e di altri Paesi possono dare un contributo ancor più forte, agevolando una maggiore integrazione dei migranti in generale grazie a queste interazioni quotidiane. Siamo ottimisti: quando le lavoratrici straniere si fanno carico dei nostri cari, diminuiscono i pregiudizi e le distanze tra italiani e stranieri in generale. Nel 1954, lo psicologo sociale Allport ha avanzato una delle idee più importanti sulla integrazione dei migranti: l’ipotesi del “contatto”. Un contatto più frequente e intenso migliora i legami tra migranti e locati sotto quattro condizioni: sostegno delle autorità e delle norme legali e sociali; effettiva cooperazione tra le parti; presenza di obiettivi condivisi tra migranti e “locali”; eguaglianza di status nei rapporti. I legislatori e gli attori pubblici e del sistema di welfare devono cercare di agevolare queste condizioni il più possibile, e i sistemi normativi e gestionali sviluppati in questi ultimi anni hanno indubbiamente spinto le prime tre condizioni di Allport. 
L’eguaglianza di status tra lavoratrici domestiche e famiglie datrici di lavoro non può, per la natura stessa del lavoro, essere raggiunta. Serve qui un cambiamento culturale. Riconoscere pubblicamente, e doverosamente, il contributo fornito dalle lavoratrici domestiche alla società italiana. Senza denigrare il loro duro ma fondamentale lavoro: anche “pulire i cessi” nelle nostre famiglie, così come nelle nostre aziende, è un contributo necessario e benemerito. 
Prorettore alla Faculty – Università Bocconi
.@fcbillari
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