Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  maggio 01 Martedì calendario

Trump d’accordo con Netanyahu

«L’Iran ha mentito, continua a costruire la bomba atomica, punta ad averne almeno cinque della potenza di quella sganciata a Hiroshima». L’accusa di Benjamin Netanyahu arriva in un momento cruciale. Entro 12 giorni Donald Trump può ritirare unilateralmente gli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare iraniano che Barack Obama firmò nel 2015 e che fu il preludio alla parziale levata delle sanzioni su Teheran. La tempistica della mossa israeliana è essenziale. Punta a esercitare la massima pressione su Trump, a pochi giorni da un passo gravido di conseguenze per gli equilibri geostrategici del Medio Oriente. Dove già Israele e l’Iran sono pericolosamente vicini a un conflitto diretto, più volte sfiorato in Siria. Il presidente iraniano Hassan Rouhani ha minacciato di riprendere il programma nucleare se le sanzioni saranno ripristinate. Ma secondo il premier israeliano quel programma non è mai stato completamente interrotto. Netanyahu in uno spettacolare annuncio televisivo ha affermato di avere olte 55mila documenti carpiti dagli «archivi segreti» di Teheran, che conterrebbero «la prova conclusiva della menzogna iraniana». Il regime degli ayatollah, secondo lui, avrebbe violato l’accordo del 2015 continuando a prepararsi per un futuro da potenza nucleare. A questo si aggiunge l’arsenale missilistico iraniano «ormai in grado di raggiungere Tel Aviv, Riad, perfino Mosca». Netanyahu ha definito questo furto di segreti come «uno dei maggiori successi di intelligence» nella storia dei servizi israeliani. Trump ha voluto attribuirgli la massima credibilità: «Ecco la prova – ha detto il presidente americano – che avevo ragione al 100% nel criticare quell’accordo». Lo “scoop” israeliano naturalmente viene da una fonte di parte. Netanyahu è sempre stato contrario all’accordo nucleare firmato da sei potenze (Usa, Russia, Cina, Francia, Inghilterra, Germania) con il governo Rouhani. Il premier israeliano attaccò Obama in occasione della firma di quell’intesa nel 2015. Il colpo realizzato dai servizi israeliani, quand’anche autentico, in realtà non sembra contenere prove su un avanzamento clandestino nell’armamento nucleare iraniano in questi tre anni. A ben guardare l’accusa è che Teheran ha prima mentito sulle sue reali intenzioni atomiche dal 2003 al 2015, poi nel 2017 ha messo al sicuro tutti i progressi fatti. L’obiettivo sarebbe quello di poter riprendere la costruzione dell’atomica non appena scade l’accordo, nel 2025. Il che, certamente, non deporrebbe in favore delle intenzioni pacifiche degli ayatollah. E riporta in primo piano un punto debole di quell’accordo noto in partenza: la sua breve durata. Comunque sia, l’annuncio-shock di Netanyahu sembra sfondare una porta aperta: Trump già quando era candidato accusò Obama di aver firmato un’intesa «pessima, disastrosa». Il partito repubblicano, ancor prima dell’elezione di questo presidente, era della stessa opinione. Vi si aggiunge la posizione dell’Arabia saudita, allineata con Israele. Casa Bianca, Congresso, governo israeliano, principe ereditario saudita Muhammad Bin Salman: questi quattro attori sembrano d’accordo nel considerare l’Iran come il pericolo numero uno in Medio Oriente, peggio di Assad o dell’Isis perché in grado di conquistare un’egemonia regionale. Nel corso dell’ultima settimana l’Europa ha tentato di farsi sentire: a Washington si sono succeduti in rapida sequenza Emmanuel Macron e Angela Merkel. Il presidente francese ha presentato una sorta di piano B, tentando di venire incontro alle preoccupazioni di Trump, di Israele e dei sauditi e al tempo stesso di salvare l’accordo del 2015. La proposta di Macron punta a rinegoziare quell’intesa rafforzandola su tre punti: un allungamento di validità, dei limiti alla potenza missilistica iraniana, e un contenimento della “influenza regionale” di Teheran (leggi: appoggio a Hezbollah, ingerenze in Sira e Libano, aiuti alla guerriglia sciita nello Yemen). L’acrobazia francese è spericolata, perché non ci sono finora segnali che l’Iran sarebbe disposto a riaprire i negoziati né tantomeno a fare concessioni così sostanziose. Il presidente Rouhani, e ancor più la guida religiosa suprema Ali Khamenei, si comportano come gli eredi dell’impero persiano e considerano legittime le aspirazioni a un ruolo da superpotenza in Medio Oriente. Un residuo margine d’incertezza sulla decisione del 12 maggio, per quanto esile, viene paradossalmente dalla Corea. In quel teatro pur lontanissimo, Trump ha dimostrato flessibilità. Il ritiro unilaterale dal patto con l’Iran potrebbe renderlo meno credibile anche nel summit con Kim Jong-un, se la conclusione è che l’America non rispetta i patti già firmati. Ma il conto alla rovescia procede implacabile, e lo stesso Macron si è detto convinto che Trump deciderà per l’uscita dall’accordo.