Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  aprile 30 Lunedì calendario

In Italia ci sono cinque milioni di invalidi

Una spesa di oltre 18 miliardi l’anno, di cui beneficiano 5 milioni di cittadini direttamente, in quando disabili o non più autonomi, o indirettamente, con le indennità di accompagnamento e i permessi per l’assistenza parentale. Prestazioni in continua crescita, con squilibri tra Nord e Sud non giustificati da evidenze epidemiologiche né dall’età dei residenti e sulle quali si possono fare pochi controlli. Invalidità civile, indennità di accompagnamento e permessi lavorativi oggi valgono poco più di un punto di Pil ma il loro costo salirà con l’invecchiamento della popolazione: tra 50 anni gli over 65enni raddoppieranno, triplicheranno gli over 85enni e già oggi quasi l’80% degli over 65 è affetta da limitazioni più o meno gravi che ne compromettono l’autonomia. Partendo da questi numeri la dirigenza Inps a fine gennaio, in occasione delle celebrazioni per i 120 anni di fondazione, ha proposto di innovare il sistema delle invalidità con uno slogan: «Più sostegno a chi più ha bisogno». 
Il tema è presente da anni nelle agende politiche. Ed è stato rilanciato nei programmi elettorali, con proposte di rafforzamento delle prestazioni attuali o di revisione complessiva del sistema (si veda la scheda in pagina). L’ultima occasione, persa, per tentare una razionalizzazione era nella delega contenuta nella legge che ha istituito il reddito di inclusione (Rei). 
Un riordino dell’assistenza, è il mantra condiviso, servirebbe per superare le sovrapposizioni di prestazioni e gli sprechi legati alle discrezionalità con cui in ogni regione si riconoscono le indennità. Con un migliore uso dei dati disponibili su tutti i beneficiari si potrebbe, poi, arrivare a un equilibrio diverso tra prestazioni in denaro e servizi di assistenza. Obiettivi che potrebbero essere avvicinati con un certo pragmatismo, secondo i tecnici dell’Inps, partendo dalla base: le commissioni mediche dovrebbero valutare le domande d’invalidità con strumenti tabellari standard. Stop, insomma, all’approccio caso per caso, un’assurdità ai tempi dei “big data”: la nuova definizione di invalidità dovrà in futuro essere basata sul “fatto biologico”. Seconda mossa: subordinare meglio le prestazioni ai parametri di reddito/ricchezza personale o familiare. Terzo: procedere con una sperimentazione facendo tesoro delle esperienze raccolte in alcuni territori più fortunati del Paese (nelle province autonome di Bolzano e Trento si spendono 250 milioni l’anno per l’assistenza di 16mila non autosufficienti; un modello non esportabile a livello nazionale) o con il programma Home care premium garantito ai dipendenti pubblici (che versano un contributo dello 0,35% per queste prestazioni gestite dall’Inps con una spesa di 200 milioni l’anno a beneficio di circa 30mila persone). Con questo approccio si potrebbe passare dalle attuali indennità di accompagnamento alle prestazioni di assistenza personali (Pap) con il riconoscimento di un budget di cura sotto forma di servizi maggiorata fino al 25 per cento. Oggi i 500 euro mensili per un invalido gravissimo possono non bastare, mentre per casi meno gravi quei soldi potrebbero essere sostituiti con servizi di cura proporzionali. 
La proposta Inps punta tutto sull’innovazione, come detto. Si dovrebbe eliminare il doppio accertamento Inps-Asl, omogeneizzare i criteri di valutazione medico-legali, garantire una completa «telematizzazione dei processi», costruire una banca dati epidemiologica nazionale. L’obiettivo finale non è spendere meno, poiché come si è detto l’invecchiamento della popolazione determinerà al contrario una maggiore spesa assistenziale, ma spendere meglio. Una gestione dell’assistenza guidata dall’utilizzo dei dati e delle esperienze amministrative migliori.

Sull’indennità di accompagnamento
di Stefano Sacchi
L’invecchiamento della popolazione porterà con sé nuovi bisogni. Tra questi, i bisogni di cura per quella fase della nostra vita in cui ci possiamo aspettare di dipendere in modo più o meno intenso dagli altri. È il grande tema della non autosufficienza, che ovviamente coinvolge anche forme di disabilità in età non avanzata. 
L’Italia ha introdotto da tempo un’importante misura per far fronte a tutto questo: l’indennità di accompagnamento, che da sola vale circa 11 miliardi di euro all’anno. A differenza degli altri grandi paesi europei, però, non l’ha poi adeguata al mutamento dei bisogni. Occorre farlo ora, per essere preparati per il futuro. E il perché è noto da tempo agli esperti. Manca una protezione adeguata per condizioni di disabilità molto elevata, perché l’indennità non è graduata in base ai livelli di gravità. I criteri di accesso sono di tipo “dentro o fuori” e così generici da lasciare spazio a grandi margini di discrezionalità. L’indennità è erogata soltanto in forma monetaria, come assegno di cura. Questo ostacola sia la creazione di un mercato regolare e certificato di servizi di cura, sia la possibilità di ricevere un mix di trasferimenti e servizi diretti. Il riconoscimento dell’indennità avviene senza supporto, consulenza, informazione alla persona e alla famiglia, nonché senza un piano di assistenza individualizzato. Non è prevista alcuna forma di integrazione tra indennità e reti di offerta dei servizi a livello locale, nonché con gli interventi introdotti da regioni e comuni. 
Una buona riforma, in primo luogo, deve dare di più a chi ha più bisogno, graduando l’importo dell ’indennità in relazione al livello di disabilità, accertato utilizzando sistemi multidimensionali di valutazione così come avviene negli altri grandi paesi europei. Ad esempio individuando tre o quattro fasce di disabilità, da lieve a molto grave. L’accesso alla misura deve restare universale così come è oggi, e deciso soltanto in base alle condizioni di disabilità: tutti i non autosufficienti accedono. L’entità della misura deve dipendere però dalla gravità delle condizioni: a differenza di oggi, chi ha disabilità gravi o gravissime deve avere di più di chi ha disabilità lievi o medie. Si può poi discutere se graduare la misura anche rispetto alle condizioni economiche della famiglia. Con pro e contro: i costi per le disabilità gravi sono tali da mettere in difficoltà anche famiglie benestanti. In ogni caso, l’accesso deve restare universale, è la misura che può essere graduata. 
Il secondo cardine di una buona riforma consiste nel dare alle famiglie la possibilità di scelta tra un assegno di cura non vincolato, come oggi, e un budget di cura vincolato nel suo utilizzo, ma di importo più elevato. Si tratta di una somma utilizzabile soltanto per l’acquisto di servizi professionali accreditati o per l’impiego regolare di assistenti familiari certificati. Come funziona? Esattamente come negli altri paesi europei: attraverso un voucher per l’acquisto di servizi di cura presso fornitori accreditati, oppure a fronte di un contratto di lavoro individuale registrato con un assistente familiare (cioè un badante). Perché incentivare il budget di cura garantendo a chi sceglie questa opzione un importo più elevato dell’assegno di cura? Perché i non autosufficienti e le loro famiglie devono avere accesso a servizi di qualità, essere informati, consigliati e sostenuti e per farlo bisogna costruire un mercato regolare di servizi e di lavoro professionale, con effetti positivi anche sull’emersione del lavoro nero. 
Negli ultimi anni sono state elaborate varie proposte di riforma, che si differenziano per alcuni dettagli ma condividono le scelte di base, riflettendo l’elevato grado di consenso tra esperti e operatori su cosa è necessario fare. La proposta Inps, analizzata a pagina 5, è tra le più articolate. Queste proposte non sono a costo zero: prevedono tutte un incremento di spesa, parzialmente compensato dalla regolarizzazione contributiva. In ogni caso, anche consentendo ai beneficiari attuali di optare per il nuovo più favorevole regime, se lo desiderano, i costi della riforma sarebbero contenuti: tra 1 e 1,5 miliardi l’anno in più. Non molto, per una riforma necessaria, che chiunque formi il prossimo governo dovrebbe mettere in cima alla lista delle cose da fare. 
Presidente Inapp 
© RIPRODUZIONE RISERVATA 
Stefano Sacchi