La Stampa, 29 aprile 2018
Il pittore che dipinge automobili
Blair Thurman ha appena inaugurato la mostra Nell’Acqua Azzurra, in collaborazione con la Gagosian, aperta fino al 17 maggio a Milano nello spazio Garage Italia. «Aspettavo un’occasione del genere da una vita. È una combinazione di Italia, Ferrari, Lapo Elkann, e poi è una specie di destino. Tempo fa ho lavorato a Milano e a Venezia. Negli Anni 90, per un decennio sono stato l’assistente dell’artista coreano-americano Nam June Paik che partecipò a diverse edizioni della Biennale di Venezia e lavorava a Milano».
Dove vive?
«A Hudson, nel Nord dello Stato di New York. È una città nata dall’industria baleniera»
La sua arte ha per soggetto soprattutto le automobili?
«Non proprio. Ha a che fare con la nostalgia e la storia della pittura, e alcune forme dell’arte sono mutuate dalle automobili e dalle strade perché la pista o il circuito sono una soluzione elegante per un problema formale».
Che problema?
«Come trovare nuovi modi di dipingere quando sapevo che i grandi pittori avevano già fatto quasi tutto almeno una volta. Il mio concetto era trovare qualcosa in meno rispetto alla pittura, cioè qualcosa di molto semplice che conduce all’idea successiva, e questo è davvero simile a Garage Italia con lo spazio personalizzato».
Quando ha iniziato?
«Nel 1988, prima a scuola e poi a New York. In seguito l’amicizia con il pittore Steven Parrino e l’esempio del suo lavoro mi hanno portato a una svolta verso l’eleganza della semplicità. Ho compreso che il circuito è il modo più intuitivo di esprimere l’infinito, cosa che magari è ovvia, ma a me ci sono voluti sei o sette anni per scoprirlo. Le piste per le automobiline della mia infanzia divennero il perfetto veicolo che stavo cercando».
Come mai la Gagosian Gallery ha deciso di organizzare questa nuova mostra con Garage Italia?
«Ho la fortuna di avere alla Gagosian due persone che capiscono il mio lavoro, Andy Avini e Jean Olivier Despres, che hanno proposto l’idea e hanno compreso la sinergia con il film Toby Dammit (Tre passi nel delirio) di Fellini. Questa pellicola non molto nota che viene proiettata alla mostra, per me è molto importante. Nasce da un racconto di Allan Poe sull’arte, la morte e il diavolo e lo vidi da ragazzo. Un attore va a Roma per ritirare un premio e gli promettono una Ferrari. Se ne va dalla cerimonia, guida a lungo in un labirinto di strade buie, ma scopre che non c’è modo di fuggire. Credo che la Ferrari d’oro che gli promettono sia la 330 Lmb Fantuzzi del 1964».
Quante opere espone?
«Dodici. La mostra racconta 20 anni di lavoro e c’è una progressione lineare – diverse generazioni – di uno sviluppo formale. Per esempio, il dipinto bianco e nero è il mio biglietto da visita. Mi piaceva perché ha un motivo a circuito ovale che indica l’identità e la proprietà. Amo la ripetizione seriale. Invece il titolo del dipinto blu con i buchi è Dallas Book (2016) perché è stato realizzato per una mostra a Dallas e assomiglia a un libro».
Che cos’ha a che fare con Dallas?
«Il Dallas Book Depository è l’edificio da cui spararono a Jfk, è un modo di ricordare in maniera lieve, l’assassinio del presidente Kennedy. Lo sviluppo formale è rappresentato dai buchi e così diventa tridimensionale».
Un’altra opera?
«La terza per me è iconica. S’intitola Day-Glo Tripper (2016), come Day Tripper, la canzone dei Beatles, ma Day-Glo è un giallo fluorescente. L’ho usata per personalizzare la mia piattaforma. Ne ho fatte una quarantina».
E l’opera che appare sulla locandina della mostra?
«Si ispira alla gara d’auto di Daytona e s’intitola Spectre e n’è anche una molto più vecchia. Ha la forma della pista del circuito di Daytona e risale al 1995».
Lei ama le auto o sono solo un’ispirazione simbolica per il suo lavoro?
«Entrambe le cose, perché amo guidare. Ma non correre, mi piace vagabondare, viaggiare, è quello che io chiamo road tripping, e ho dei dipinti che definisco Road Tripping paintings. Ci sono segnali stradali, come quello della Route 66, che poi diventa un Ufo. La forma della Chevron ricorda un’astronave».
È difficile essere un artista americano oggi? Si sente abbastanza riconosciuto?
«Penso che oggi la differenza rispetto agli artisti che ammiro, come gli spazialisti italiani Paolo Scheggi e Agostino Bonalumi, stia nel fatto che non abbiamo più un contesto di gruppo. Non abbiamo la compattezza critica, letteraria e filosofica sottintesa a un gruppo di persone che si parlano e s’incontrano. Non è triste, ma diverso. Essere americano a volte è difficile».
Perché la mostra s’intitola «Nell’Acqua Azzurra»?
«È il titolo di un dipinto che è in effetti un ritratto di Lapo, perché lo conosco un po’, conosco la sua esuberanza, la sua forza, il suo ottimismo e il suo straordinario amore per il blu».
Cosa farà dopo questa mostra?
«Questo appuntamento è importante e segna l’inizio di un periodo della mia vita in cui sto cercando di collegare tutto il mio lavoro. Ora che ho 57 anni voglio completare le varie catene di forma e soggetto. Farò una piccola mostra a Zurigo con un buon amico, un altro pittore».