Il Messaggero, 28 aprile 2018
Ricostruzione dell’attentato di Fiumicino del 1973
La mattina del 17 Dicembre 1973 cinque terroristi palestinesi, probabilmente appartenenti all’organizzazione Settembre Nero, fecero irruzione nel varco di sicurezza dell’aerostazione di Fiumicino. Qui si divisero in due gruppi. Il primo, sotto la minaccia di mitra e bombe a mano, disarmò e sequestrò sei nostri poliziotti; poi si diresse verso un aereo della Pan Am in procinto di decollare per Teheran, salì a bordo e fece esplodere alcune bombe al fosforo. Ventotto passeggeri e una hostess morirono carbonizzati, e decine furono i feriti di cui uno spirò poco dopo. Il secondo gruppo si diresse verso un aereo della Lufthansa, raccogliendo altri ostaggi e uccidendo a freddo il ventenne finanziare Antonio Zara, che si trovava sulla loro strada. Assieme agli altri componenti, il commando fece rotta verso Atene, dove atterrò poco dopo, intimando subito al governo locale la liberazione di due compagni detenuti nelle carceri greche.
Il Governo ellenico rifiutò. I terroristi uccisero un altro ostaggio, il giovanissimo caposquadra Domenico Ippoliti, gettarono il cadavere sulla pista, e fecero ripartire il velivolo. Qui iniziò il solito calvario di richieste e rifiuti. Beirut e Cipro negarono l’atterraggio, che fu invece concesso da Damasco. Da lì l’aereo ripartì per il Kuwait, dove il giorno dopo i dirottatori liberarono gli ostaggi e si arresero. Furono arrestati e consegnati all’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP). Di loro poi non si seppe più nulla.
IL TERRITORIOL’attentato era il più grave mai commesso nel nostro territorio, con un numero di morti superiore a quello di Piazza Fontana; alla fine si contarono 34 vittime e 15 feriti. Tuttavia non produsse lo stesso effetto emotivo. Forse perché molte vittime erano straniere; forse perché vi era meno spazio per la polemica politica interna, che aveva invece avvelenato le indagini di Milano; o forse perché nessuno in Italia, e tantomeno il governo, aveva interesse a parlarne, in quanto si procedeva su un terreno minato. L’operazione non era infatti un sanguinario sfogo di fanatici isolati. Essa si inseriva nel complesso gioco delle parti che da mezzo secolo caratterizza il conflitto arabo-israeliano, e dove l’Italia occupa, o almeno allora occupava, una posizione geografica cruciale.
La nostra politica era ufficialmente atlantica e filoisraeliana, ma nel Paese vi erano forti simpatie palestinesi alimentate da una estrema sinistra antisionista, da un’estrema destra filonazista, e da una parte della Chiesa ancora vincolata al pregiudizio del popolo deicida. Per di più gli interessi economici che ci legavano al mondo arabo suggerivano un atteggiamento di prudente equidistanza, di cui l’on. Moro, con la sua soave eloquenza vescovile, era indiscusso e insuperato maestro.
Dell’attentato vi erano state avvisaglie. Tre mesi prima, cinque palestinesi erano stati arrestati a Ostia, probabilmente su indicazione del Mossad, mentre trasportavano dei micidiali missili Strela, di fabbricazione sovietica, in grado di abbattere gli aerei sulla rotta di Fiumicino.
LA VISITAPare che intendessero colpire l’aereo di Golda Meir di cui era prossima una visita ufficiale in Italia. Per di più i nostri servizi di informazione avevano allertato le autorità di una nuova possibile azione di gruppi mediorientali, più o meno controllati dall’Olp. Il nostro governo non aveva fatto nulla. O meglio, si era attivato per liberare parte dei palestinesi arrestati: alla fine, sia pure a rate, se la squagliarono tutti, con l’ausilio dei servizi segreti e di un’indulgente distrazione della magistratura.
Sta di fatto che su questi due episodi, e soprattutto sulla strage di Fiumicino cadde un significativo silenzio, ed in effetti ancor oggi quasi nessuno se ne ricorda, salvo i parenti delle povere vittime: una delle vergogne del nostro infelicissimo e bellissimo Paese è di aver sempre distinto, tra commemorazioni ampollose e retoriche infantili, le vittime di serie A da quelle di serie B. Le stragi dei palestinesi appartenevano a queste ultime, ed erano viste con un misto di timore, di incredulità e quasi di fastidio, come lo erano i primi attentati di matrice rossa che venivano genericamente attribuiti a provocazioni fasciste.
Di lì a poco si sarebbe capito, e l’on. Moro lo avrebbe capito sulla propria pelle, che era stato quantomeno un errore mortale. Non è ancora chiaro, e forse non lo sarà mai, il nesso tra i terroristi di Ostia e quelli di Fiumicino. Probabilmente appartenevano a gruppi diversi e antagonisti, e pare che, alla fine, abbiano regolato i conti tra di loro. Quello che invece è certo, è che il governo italiano trattò con l’ Organizzazione per la Liberazione della Palestina, e concluse il cosiddetto Lodo Moro nei termini seguenti: noi lasciamo transitare nel nostro territorio i vostri gruppi armati, e voi ci garantite che non farete attentati in Italia.
LA QUIETEInsomma una tacita complicità in cambio della quiete. Naturalmente il Paese non ne seppe nulla, anche se le voci circolarono, metà scandalizzate per il patto scellerato, metà sollevate per lo scampato pericolo. Quando Moro fu rapito e, chiedendo di trattare con i brigatisti la propria liberazione, inondò colleghi e amici di una copiosa corrispondenza dalla prigione del popolo, fece riferimenti specifici a questo accordo riservato. Egli affermò, tra l’altro, che «in moltissimi paesi civili si hanno scambi e compensazioni, e che in Italia stessa per i palestinesi ci siamo comportati in tutt’altro modo»: in modo opposto, cioè, rispetto alla fermezza con cui in quel momento il governo stava respingendo ogni compromesso con i suoi sequestratori. E in un’altra lettera Moro concluse, significativamente, che talvolta per salvare vittime innocenti vi è la «la necessità di fare uno strappo alle regole della legalità formale».
LA MISSIVAE infine, ancora più esplicito in una missiva al sottosegretario della Giustizia: «Tu forse già conosci chiaramente le vicende dei palestinesi all’epoca più oscura della guerra. Lo scopo di stornare grave danno minacciato alle persone, ove essa fosse perdurata».
Sono parole che, pur provenendo da un ostaggio sotto gravissime pressioni fisiche e psicologiche, esprimono tuttavia un principio abbastanza elementare, seguito da tutti i governi del mondo: che quando l’ interesse dello Stato esige scelte difficili per tutelare l’incolumità pubblica, il confine tra legalità e illegalità sfuma fino a dissolversi, e talvolta è consentito, e forse necessario, venire a patti con i delinquenti. Sarà interessante, leggendo la motivazione della recente sentenza di Palermo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, se questi principi siano stati tenuti in considerazione, o se si debba instaurare a carico del compianto onorevole Moro un processo postumo, come avvenne per Papa Formoso più di mille anni fa.