la Repubblica, 28 aprile 2018
Perché Kim è a un tratto tanto mansueto
È la prima volta dalla guerra di Corea (1950-53) che un esponente della “monarchia rossa” dei Kim oltrepassa il confine con il Sud. Sentir parlare di denuclearizzazione e trattato di pace rafforza le speranze di una svolta. Giornata storica, certo, ma come si spiega? Perché il terzo esponente della dinastia comunista ha cambiato tono? Perché l’Ometto- Razzo ( nomignolo spregiativo coniato da Donald Trump) dopo le sue provocazioni missilistiche e nucleari, ora sembra volere il dialogo e perfino qualche forma di disarmo? Ci sono diverse spiegazioni, alternative o complementari. Prima ipotesi: le sanzioni ( e le minacce) funzionano. È la spiegazione più banale, non per questo va scartata. Dopo gli ultimi test atomici e di missili balistici, gli Stati Uniti riuscirono a fare approvare nuove sanzioni dal Consiglio di sicurezza Onu. E soprattutto, Trump riuscì a farsi promettere dal suo omologo cinese Xi Jinping che Pechino le avrebbe applicate in modo rigoroso. In passato le sanzioni furono spesso aggirate dalla Cina, paese da cui transitano il 90% degli scambi nordcoreani con il resto del mondo. In particolare i cinesi continuarono a rifornire Pyongyang di energia. Alcuni affaristi cinesi hanno creato delle “oasi” di mercato libero e privato in Corea del Nord. Tutte cose essenziali per la sopravvivenza del regime di Kim. Ora in base alle testimonianze recenti di ong che operano a Pyongyang, ci sarebbero delle penurie anche nell’approvvigionamento della nomenclatura. Segno che forse la Cina sta mantenendo le promesse. In questo caso la svolta “pacifista” di Kim sarebbe dettata da uno stato di necessità. Minacciato dal collasso economico, e messo sotto pressione dai cinesi, Kim avrebbe agito in modo razionale: il dialogo con il presidente sudcoreano Moon e poi l’ancor più storico vertice con Trump possono allentare la morsa, preludere alla fine delle sanzioni. Il presidente americano naturalmente vede in questa svolta anche un successo per il suo approccio imprevedibile e dirompente, incluse le ripetute minacce di scatenare “fuoco e furia” con un attacco preventivo su Pyongyang. Seconda ipotesi: la Cina ha un piano B. La ragione per cui Xi avrebbe “chiuso i rubinetti” applicando in modo stringente le sanzioni contro la Corea del Nord, va inquadrata nelle relazioni più complessive con l’America di Trump. La partita commerciale è la più importante per gli interessi geoeconomici della Cina. L’escalation dei dazi pone problemi seri ad una superpotenza che dipende dalle esportazioni e accumula avanzi commerciali con il resto del mondo. Subito dopo l’ultimo congresso del partito comunista cinese, Xi ha avviato un riesame della strategia sulla Corea del Nord, dichiarando la sua insoddisfazione. «Tutti ci ritengono responsabili per quello che fa Kim, e non ne stiamo ricavando benefici», avrebbe detto Xi in quell’occasione. Va ricordato che la Cina combatté a fianco del nonno di Kim e lo salvò dalla sconfitta nella guerra del 1950- 53. È co- firmataria dell’armistizio e avrà un ruolo decisivo se si firma il trattato di pace fra le due Coree. La Cina sa guardare lontano e pianificare sui tempi lunghi. Una distensione nella penisola coreana può favorire il suo scenario ideale, che forse non dispiace neppure a Moon: crea le condizioni per il graduale disimpegno militare degli Stati Uniti, forse perfino per una riunificazione tra le due Coree, che Xi può accettare solo se la penisola viene smilitarizzata, le forze americane si ritirano ( e viene meno anche l’ombrello atomico americano), quindi non si ripete lo scenario della riunificazione tedesca che portò la Germania Est nella Nato. Al contrario, una “grande Corea neutrale” potrebbe scivolare nell’orbita politica di Pechino, oltre che nella sua sfera economica. Terza ipotesi: Kim bara. Il giovane leader nordcoreano ha già ottenuto molto da quando è salito al potere succedendo al padre. Il vertice del disgelo con Moon è un nuovo passo verso la sua legittimazione internazionale, che sarebbe esaltata dalla firma del trattato di pace con Seul. L’incontro a tu per tu con Trump sarà un enorme successo d’immagine per il dittatore di un paese finora ai margini della comunità internazionale. Lo status quo gli va benissimo, visto che la Corea del Nord è comunque una potenza nucleare, con missili capaci di raggiungere gli Stati Uniti. Trump si sta rendendo conto che rischia di cadere in una trappola, non a caso ha minacciato di abbandonare il tavolo se Kim non concede una vera denuclearizzazione. Ma proprio questo è il punto più delicato. Finora non ci sono garanzie che Pyongyang voglia davvero rinunciare all’arma nucleare, che rappresenta una “polizza di assicurazione vita” per Kim. Il disarmo nucleare andrebbe garantito con un dispositivo di controlli affidabile e quindi invasivo, in un regime notoriamente impenetrabile. Kim può fare delle promesse vaghe e poi calpestarle, dopo avere incassato un allentamento delle sanzioni e nuovi aiuti umanitari dalla Corea del Sud. È già accaduto ai tempi di suo padre, che i periodi di disgelo siano stati l’occasione per ridare mezzi economici alla dittatura comunista, e poi riprendere in segreto i programmi militari. Il carattere repentino della svolta “pacifista” di Kim, operata nella totale opacità, suggerisce cautela.