la Repubblica, 28 aprile 2018
Se Renzi si fa il partito suo
Con la solita saggezza, l’anziano Emanuele Macaluso ha scritto una semplice verità: l’attuale quadro politico «certamente non può produrre governi autorevoli in grado di affrontare i complessi problemi del Paese». Frase che vale da epitaffio dei tentativi in corso, a cominciare da quello fra Cinque Stelle e Pd, peraltro anche l’unico. Un’operazione avventurosa le cui probabilità di riuscita sono minime. E si capisce: mancano i maggiori requisiti perché il cosiddetto dialogo “sui programmi” abbia una reale ricaduta politica. Del resto, quasi mai si discute prima del programma e poi della cornice politica: si tratta di una finzione che serve a mascherare ciò che non sempre si può raccontare all’opinione pubblica, ossia il mercato delle convenienze e la divisione del potere. Allo stato delle cose, la convenienza del M5S consisterebbe nel riuscire a varcare la soglia di Palazzo Chigi (ma con il volto di chi non è dato sapere: anche questo riguarda il “dialogo”); viceversa l’interesse del Pd starebbe nell’evitare il ritorno precipitoso alle urne. In effetti la paura del voto costituisce un freno potente, tale da aguzzare l’ingegno per individuare tutti i possibili appigli. Ma questo timore spinge a sedersi al tavolo del negoziato, non è detto che sia sufficiente per firmare patti e varare un governo con i 5S. Troppe contraddizioni e incertezze. Non a caso si dice, a ragione, che l’unico in grado di gestire l’approccio con Di Maio e i suoi amici con la necessaria determinazione sarebbe Matteo Renzi, l’ex segretario che continua come prima a esercitare una leadership sostanziale. Il fiorentino si è molto esposto nel proclamare la sua contrarietà all’intesa. Può sempre cambiare idea, se intravede una convenienza. Ma finora non l’ha vista. Senza di lui, il Pd non sembra in grado di mantenersi compatto. E senza compattezza, non ci sono i numeri per la maggioranza parlamentare (in ogni caso sarebbero risicati). Quindi il lungo braccio di ferro potrebbe risolversi in un pasticciato fallimento, così da mostrare all’opinione pubblica la lacerazione forse irrimediabile nel centrosinistra. Difficile peraltro credere che Renzi accetti di farsi mettere in minoranza nella direzione del 3 maggio. Plausibile che accetti di inaugurare il tavolo del negoziato, ma che si riservi la mossa finale: governare in prima persona la nuova fase oppure gettare le basi per la frattura definitiva del vecchio partito. In fondo, se fosse concreta la deriva delle elezioni entro l’autunno, quale migliore occasione per tentare la rivincita personale alla testa di un movimento costruito a propria immagine? Al di là dei paragoni impropri con l’esperienza di Macron, resta il fatto che è nel temperamento di Renzi buttarsi nella mischia all’eterna ricerca del plebiscito. Certo, la vicenda del referendum 2016 dovrebbe consigliargli molta prudenza, ma è pur vero che il risultato del 4 marzo ha cambiato tutti gli scenari, incoraggiando nuove avventure. E infatti oggi la crisi del Pd è aperta a tutti gli sbocchi. Il problema è che i vertici del centrosinistra, primo fra tutti l’ex premier, pensavano di assistere a un altro film. L’abbraccio e lo sposalizio politico fra Di Maio e Salvini: una straordinaria occasione per tutti gli sconfitti, dal Pd a Berlusconi, di sedersi sulla riva del fiume, attendere che si compisse qualche disastro e solo dopo pensare alle elezioni. Ma la realtà sa essere impietosa. Invece del patto Lega-5S c’è da esplorare l’improbabile contratto 5S-Pd. Una palude insidiosa in cui renziani e anti-renziani rischiano di affondare.