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 2018  aprile 28 Sabato calendario

Intervista a Tornatore

roma «Ecco, questa è una lampada ad arco voltaico, i carboni che si consumavano si dovevano avvicinare in modo che la luce fosse costante». La prima cosa che svetta nello studio di Giuseppe Tornatore, tra locandine, manifesti, foto che sono una dichiarazione d’amore per il cinema, è un enorme proiettore verde, sembra un pezzo d’artiglieria della Seconda guerra mondiale: «La marca è Cinemeccanica, il modello Victoria 4 R». Quella che usò per Nuovo Cinema Paradiso, è identica. Sono passati 30 anni e il Bifest, il Festival di Bari, organizza una mostra sul film da cui tutto ha avuto inizio per lui: oggi viene proiettato, nella versione tirata a lucido e restaurata.
Fu un’avventura travagliata, col lieto fine.
«Quando uscì non andò bene e tutti davano la colpa alla lunghezza. Lo accorciai di 25 minuti, riuscì e fu di nuovo un fiasco. Dopo la doppia vittoria a Cannes e agli Oscar, ebbe successo in Italia: in totale uscì quattro volte: l’ultima incassò 10 miliardi di lire».
I due protagonisti?
«Philippe Noiret era come uno di quegli zii che vivono all’estero e una volta l’anno tornano a casa. E lui, Totò Cascio, so che ha acquistato due supermercati in Sicilia».
Cosa rappresenta quel film per lei?
«Potrei dire tutto, per la storia che racconto e per le implicazioni personali che coinvolgono la storia. Sono entrato in una cabina di proiezione a dieci anni. A Bagheria ho cominciato come fotografo e proiezionista, qualcosa a metà strada tra magia e stregoneria...»
La vita di un film era infinita.
«Durava anni. Se non riuscivi a vederlo dovevi aspettare la seconda visione, sale meno importanti. Potevano esserci ribaltamenti improvvisi col passaparola. Oggi dopo due settimane sei fuori. Ne prendo atto. È un processo di limitazione costante. Ma i cinema non spariranno, saranno una parte del business, sempre meno centrali».
Netflix è fuori Cannes perché non va nelle sale.
«Non so dare una risposta affilata, io non ne sono un consumatore, non ho questa febbre delle serie tv, la voglia di vederle tutte insieme. Netflix è un aspetto della trasformazione del cinema, tutto ciò che può sembrare una sfida sarà un’opportunità o un fallimento. Cannes ha fatto una scelta coraggiosa».
La notte degli Oscar?
«A Hollywood per istruirti ti davano un rappresentante dell’Academy, il mio fu Cesare Danova, attore italiano che viveva lì. Fu lui a dire a me e a Franco Cristaldi, il produttore, che il discorsetto di ringraziamento, in caso di vittoria, doveva essere al massimo di 45 secondi. Mi ero fatto dare un consiglio da Fellini: se vinci l’Oscar, prenditelo tu, sennò Cristaldi te lo frega e ti fa fare una copia».
Come andò a finire?
«Cristaldi mi disse, o parli prima tu e l’Oscar lo prendo io, o facciamo il contrario. L’Oscar a me, risposi. Era l’anno della Glasnost così in collegamento da Mosca, accanto a Jack Lemmon da Los Angeles, c’era un’attrice russa. Vinsi. Cristaldi disse che il 26 marzo era la sua data fortunata perché quello stesso giorno, tanti anni prima, ritirando l’Oscar per Amarcord incontrò la sua seconda moglie, Zeudi Araya. Quando fu il mio turno esordii così: Excuse me. E tolsero il collegamento. Non avevamo capito che erano 45 secondi in tutto, li consumò tutti Cristaldi».
Cosa successe?
«Imbarazzo generale. Bill Conti, il direttore d’orchestra della cerimonia, mi guardava mortificato. Il Los Angeles Times titolò: Tornatore ha vinto due Oscar in un solo colpo, per il migliore film straniero e per il più breve ringraziamento nella storia degli Oscar. È andata meglio così, avevo preparato un discorso stupido: scusatemi per il mio pessimo inglese, spero che tra di voi ci sia una donna che, come per Cristaldi, diventerà mia moglie. Riuscii a dire solo scusatemi».
Lei non è un regista prolifico.
«Ho realizzato undici film. Sei anni se ne sono andati per il progetto sull’assedio di Leningrado, mai andato in porto. Una volta Fellini mi disse: ricordati che esistono solo i film che fai. I film che non fai non esistono. Anche se non sei persuaso del tutto, vai».