Corriere della Sera, 28 aprile 2018
Mimmo Paladino a Brescia
Brescia. Dalla balconata del torrione di piazza della Vittoria lo Scriba di Mimmo Paladino continua, imperterrito, le sue trascrizioni. Non si accorge neppure dell’indù che attraversa lo spiazzo, costeggiando il grande cavallo stilizzato dello scultore, sormontato da una sorta di mazzocchio ispirato da Paolo Uccello — motivo ripreso in un’altra opera (Zenith, anello, 2007) da un disegno di Leonardo — o del gigantesco elmo sannitico che potrebbe richiamarne uno medievale dell’antico quartiere coevo, abbattuto da Marcello Piacentini per far posto al monumentale slargo, inaugurato nel 1932. Piazza della Vittoria è solo uno dei luoghi che accoglie (sino al 2 settembre) i 76 lavori dell’Ouverture di Paladino (Paduli, Benevento, 1948), adesso condensata nel volume omonimo (Silvana Editoriale, pp. 266, e 40), curato da Luigi Maria Di Corato, la cui introduzione al volume è un’eccellente guida al percorso d’arte.
Per Paladino si tratta di un ritorno, a distanza di oltre quattro decadi. Nel 1976, infatti, l’artista inaugura da Pietro Cavellini, la sua prima personale bresciana (Le immagini sono riflessi bruciati): installazioni fotografiche, presentate dal compianto Filiberto Menna, un medico salernitano prestato alla storia dell’arte, che, alla fine, decise di abbandonare Ippocrate per Mondrian e Prampolini.
Stavolta, a documentare Ouverture ci ha pensato Ferdinando Scianna, con la solita maestria. Viene in mente Leonardo Sciascia quando dice che «quasi tutto quello su cui si posa l’occhio e l’obiettivo» dell’autore di Quelli di Bagheria, «obbedisce proprio in quel momento]…], per istantaneo magnetismo, al suo sentimento, alla sua volontà e, in definitiva, al suo stile».
A Brescia le installazioni si smonteranno e i lavori andranno altrove, ma le fotografie resteranno a testimonianza di un evento davvero straordinario. C’è di più, come direbbe Carlo Bo: l’Ouverture ha anche un aedo moderno (senza cetra): Aldo Nove, capace di sintetizzare nei primi 74 versi (Brescia e l’universo) la storia della «leonessa d’Italia»: dalle origini al 2017. Contrariamente a quanto si può credere, la poesia celebrativa non è morta. Altre opere? Elmi, cavalieri rossi, vasi alchemici, velari, figure reclinate, dormienti, specchi ustori («Voci frammenti e frammenti di voci», per Nove), teste, uccelli, vetri sparsi fra il museo di Santa Giulia, il Parco archeologico di Brescia romana (fra colonne con basi e scanalature rosicchiate dal tempo), il Capitolium e altri luoghi, in apertura del concerto (da qui ouverture, apertura) di «Brixia Contemporary» (alla sua prima edizione).
Naturalmente si tratta di un concerto sui generis. Paladino non narra; piuttosto percepisce analogie, frammenti, senso della coralità in un gioco continuo di rimandi, slittamenti metaforici. Le sculture immerse nel paesaggio urbano evocano misteri, miti. Esiste un rituale? E se esiste, qual è la genesi? In proposito, Norman Rosenthal parlava dell’incidenza che su Paladino ha avuto la sua regione natale, nella quale si sono avvicendati, in epoche diverse, egiziani, fenici, etruschi, greci, romani, normanni e di cui sono rimaste enormi tracce archeologiche che, in parte, formano tutt’ora il paesaggio.
Nell’artista di Paduli, il richiamo ad altre età si manifesta talvolta in maniera quasi inconscia ed egli recupera un passato, come dire?, ibernato. Naturalmente, il tutto rivisto in chiave moderna. Da qui, maschere, elmi («La Medusa ha chiesto scusa, si è / associata a ogni stella che / l’ha poi rinchiusa / in una forma / da cui è nata la guerra, / la norma», chiosa Aldo Nove), sarcofagi, carri, stele, tane, che restituiscono istantanee di momenti lontani, creando l’illusione che il tempo possa essere fermato. C’è di più: l’aspetto ludico. Che si individua, di riflesso, nel comportamento dello spettatore, nel suo continuo gioco di rimandi: a una prima immediata lettura — nella quale si descrive ciò che si vede — segue una decifrazione magico-simbolica per confrontare passato e presente. «È importante lavorare sull’idea della distanza» ha spiegato una volta l’artista. Il resto viaggia sul binario della suggestione, dell’incanto, dell’enigma.
Paladino non si pone confini temporali, cerca solo la libertà d’espressione. Combinando e scombinando vari elementi dà un secondo significato: accanto a quello ancestrale c’è un riferimento alla realtà d’oggi. Valga per tutti l’esempio dell’elmo. Il suo, che è anche una tana, evoca un momento guerresco. «Guerresco, non eroico — precisa lo scultore —. Forse che la creazione non è un combattimento quotidiano?».