Corriere della Sera, 28 aprile 2018
Le amministrazioni pubbliche ricavano troppo poco dalle concessdioni dell’acqua
ROMA Un territorio grande quanto la somma della superficie del comune di Milano con quella del comune di Firenze. In tutto si tratta di 280 chilometri quadrati che equivalgono all’area di territorio italiano oggetto delle 295 concessioni per lo sfruttamento delle sorgenti di acque minerali. Un business che per le società che imbottigliano e commercializzano l’acqua si traduce in un volume d’affari di quasi 3 miliardi di euro all’anno. A colpire, tuttavia, è il valore dell’incasso ottenuto dalle amministrazioni pubbliche per accordare le concessioni. Appena 18,4 milioni di euro nel 2015, secondo i calcoli della direzione Valorizzazione dell’attivo e del patrimonio pubblico del ministero del Tesoro. Nel rapporto, che esamina l’universo delle concessioni delle acque minerali e termali, l’osservazione è che «nel 2015 lo sfruttamento equivale allo 0,68 per cento del fatturato annuo del settore». In pratica, le maggiori società del settore «per ogni euro speso in canoni di concessione hanno conseguito, mediamente, ricavi dalle vendite e dalle prestazioni pari a 191,3 euro». Cifre e multipli che riassumono come è disciplinato lo sfruttamento di un asset del patrimonio pubblico senza indicare alcune ulteriori criticità. A farlo è il documento elaborato dal Tesoro che all’aspetto del valore dei canoni incassati aggiunge altri punti deboli.
Il primo problema riguarda la modalità di affidamento delle 295 concessioni rilasciate a 194 concessionari. Nel settore delle acque minerali solo in un caso l’attribuzione è avvenuta tramite gara, «nonostante» rileva il rapporto «il 50 per centro delle concessioni sia stato rinnovato o stipulato negli anni successivi al 2000». L’assenza di gare brilla anche nel comparto delle acque termali: solo 5 affidamenti con gara, a fronte di 489 concessioni.
Singolare è anche il metodo di calcolo dei canoni concessori. Nel 2015, esercizio a cui fa riferimento l’analisi del Tesoro, dalle sorgenti italiane sono stati prelevati circa 16 miliardi di litri di acqua minerale. Il punto è che nel 40% dei casi il canone delle concessioni è fisso e, dunque, non varia in base alla quantità dei prelievi effettuati. Non a caso, la constatazione è che «il peso del mancato gettito è rilevante se si considera che, a livello aggregato, la quota di canone legata al quantitativo di acqua prelevata incide per l’88,7 per cento sul canone totale». Un dato, insomma, da valutare in vista del termine delle concessioni, considerando che il 25% delle autorizzazioni andrà in scadenza entro il 2021. Entro la stessa data scadranno anche il 45% delle concessioni per l’utilizzo di acque termali. Per quest’ultime, tra l’altro, l’incasso ottenuto per l’affidamento è stato nel 2015 pari a 1,7 milioni di euro, a fronte di un fatturato del settore di circa 1,7 miliardi.
Nell’industria delle acque minerali a dividersi la fetta principale dei 280 chilometri quadrati di territorio oggetto di concessioni sono i big del mercato. Alle dieci principali aziende di imbottigliamento e commercializzazione di acqua e soft drink è riconducibile il 70% dei prelievi a livello nazionale. Il gruppo Nestlé (San Pellegrino) e il gruppo San Benedetto estraggono 2,7 miliardi di litri ciascuno, Fonti di Vinadio 1,1 miliardi di litri, Lete spa 990 milioni di litri, il gruppo Norda 892 milioni di litri, Ferrarelle 855 milioni di litri.