Corriere della Sera, 28 aprile 2018
Quel cattivo carattere di Rossini
Sergio Ragni vive con Rossini ogni giorno. Per aprire la porta di questa casa-museo, che dal Vomero svetta su Napoli con una vista mozzafiato, qui bisogna separare l’uomo dall’artista. «Che cosa avrei chiesto a Rossini? Lo amo molto, ma è meglio che non ci siamo conosciuti. Molti aspetti della sua personalità li trovo insopportabili, era prepotente e avaro, mentre io mi ritengo generoso. E con le donne...». Ma se gli chiedete quale sia l’Otello migliore, tra Verdi e Rossini, la risposta è scontata: «Non si discute». Rossini, fortissimamente Rossini. Ragni, napoletano di 70 anni, è un collezionista e studioso di Gioachino Rossini, lo reputa «il più grande musicista che l’Italia possa vantare», ama «la forza ritmica» sprigionata dalle sue note. Ha scritto saggi, è il curatore (per conto della Fondazione Rossini) del monumentale epistolario del compositore, e alla sua prima moglie, la grande cantante spagnola Isabella Colbran («una delle sue prime vittime») ha dedicato una biografia di 674 pagine. Dorme nel letto appartenuto alla Colbran: stretto, da lui definito «scomodissimo»; per rispetto alla cantante declina l’invito a farsi ritrarre lì seduto. Nell’anticamera ci sono un paio di scarpe di scena indossate da Maria Callas, oltre a gioielli per una sua Leonora, ma questa è una divagazione inutile.
Concentriamoci invece nei quattro ambienti, tra soggiorni e studio (pieni di memorie acquistate perlopiù nelle aste), dedicati al musicista delle 39 opere e del lungo silenzio quasi assoluto, cominciato alla precoce età di 37 anni. All’ingresso, il medaglione commissionato dal governo francese nel 1864, bronzo con base in marmo, opera di Hyacinthe Chevalier, dove Lui appare «incoronato d’alloro come Dante, già consacrato all’immortalità. Fu il compositore che ha avuto più riconoscimenti dai contemporanei». Sul tavolo, una scatola di sigari con la sua effigie dalla quale ci si può allontanare in poche crome: «Sono cianciafruscole, come dice ne “La Gazza ladra”». Ma ecco il ritratto non compiuto fatto dal barone Girard, il busto di Danton celebre per le sue caricature, la litografia di un giovane Delacroix. Oppure la facciata del San Carlo come fu creata da Niccolini dopo l’incendio del 1816, una delle due sale reali (insieme col Teatro del Fondo che oggi è il Mercadante) di cui Rossini per sette anni fu direttore artistico. Lo scrittoio portatile modello Davenport con l’effigie del maestro contiene figurini d’epoca e una raccolta di scenografie di Alessandro Sanquirico, il più celebre dell’800, che lavorò quasi esclusivamente alla Scala.
La seconda sala è la parte più espositiva: una galleria di ritratti, dal debutto nel 1810 in avanti, che non seguono un ordine cronologico, e fotografie del musicista, poi i fogli d’album che regalava ad amici e ammiratori, dove musicò centinaia di volte i versi di Metastasio. E ce n’è uno dal «Ciro»(«Mi lagnerò tacendo della mia sorte amara») che potrebbe esprimere la sua decisione di abbandonare la carriera artistica. Tra mille ipotesi e congetture, secondo Ragni «era consapevole di aver fatto tutto, il suo lascito alla storia della musica era compiuto, mutavano i gusti del pubblico». Tra gli autografi, quelli dell’archivio Vivazza («era il soprannome di suo padre, testa calda e spirito ribelle in gioventù»), con le lettere che da Parigi, dove si era trasferito, gli spedì a Bologna, chiamandolo talvolta «Jusfett», variazione goliardica in bolognese di Giosafatte.
C’è poi il salone, «dove si fa un po’ di musica» (attorno a un leggìo appartenuto al maestro, al modello in terracotta della sua mano) col pianoforte Bechstein che accompagna dive che si chiamano Marilyn Horne e Cecilia Bartoli. Qui, tra un busto di Gioachino su un piatto di maccheroni e un divano con stoffa ispirata a «La donna del lago», il pezzo più importante è l’autografo per il finale alternativo dl «Guglielmo Tell», dove vengono cambiati i nomi dei personaggi e l’azione spostata dalla Svizzera in Scozia, una versione in italiano mai eseguita nel nostro Paese. Ecco la sedia in velluto giallo dove il sommo, nel 1836 al liceo musicale di Bologna, posò il suo fisico corpulento: c’è l’invito scritto del padrone di casa a non sedersi, rivolto ad amici e scolaresche che il sabato vengono in visita.
Finalmente entriamo nella sacra stanza, quella con il letto e le due cassettiere dove un tempo c’erano gli abiti della divina Colbran e oggi le camicie di Sergio Ragni, memorie provenienti dalla villa a Castenaso, nei pressi di Bologna, di proprietà di Madame Rossini (prima che il compositore, genio degli affari, se la facesse consegnare, includendola nella dote maritale). Qui c’è un nécessaire di oggetti appartenuti all’ultimo Rossini, occhiali, lente d’ingrandimento, ciocca di capelli («portava la parrucca, era completamente calvo»). Ce n’è un’altra, di ciocca slavata: Gioachino la mandò a una medium, quando soffriva di depressione, sperando in un aiuto miracoloso.