la Repubblica, 27 aprile 2018
La metamorfosi di Mediaset per sottrarsi agli attacchi. E nel futuro l’ipotesi vendita
Milano «Berlusconi usa le sue tv contro gli avversari politici, basta minacce a Salvini. Bisogna metter mano a questo continuo conflitto di interessi». L’affondo di Luigi di Maio sulle tv di Silvio Berlusconi (che ha replicato con un secco «vuole un esproprio proletario da anni ‘ 70» ) non ha colto il Biscione impreparato. Anzi. I vertici di Mediaset, visti i risultati del voto e la scoppola di Forza Italia, avevano già capito di non poter rimanere con le mani in mano per non restare ostaggi della politica. E un secondo dopo il verdetto elettorale hanno aperto due cantieri decisivi per il futuro del Biscione: il primo – chiuso a tempo record – è quello della “buonificazione” del palinsesto. Obiettivo: evitare, in caso di voto anticipato, di ripetere gli errori fatti prima del 4 marzo, quando le trasmissioni più populiste – finite ora in naftalina sacrificando tre totem come Mario Giordano, Maurizio Belpietro e Paolo Del Debbio – hanno portato voti a Lega e M5s. Il secondo – aperto dalla pace con Sky e destinato ( forse) a proseguire a breve sul fronte Tim – ha una posta in gioco altissima: la metamorfosi finale di Mediaset e dell’impero televisivo di Silvio Berlusconi.
I problemi del gruppo, del resto, non sono spuntati dal nulla dopo le elezioni. L’epoca delle vacche grasse del duopolio e delle leggi ad personam è finita da tempo. L’audience di Mediaset è scesa dal 45% del 2003 al 31,5% attuale, i 500 milioni di utili di inizio millennio sono un ricordo lontano, cancellato dai 545 milioni persi tra il 2012 e il 2016. Il voto del 4 marzo – con l’ex-Cav ridotto a vice di Matteo Salvini – è stato solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso. E ad Arcore è partito il dibattito: cosa fare da grandi? Tempo da perdere non ce n’è. Il mondo dei media è in fermento. C’è la concorrenza di Amazon, Netflix & C, persino Rupert Murdoch è costretto ad andare a nozze con Disney per sopravvivere. Non solo: la fragile pax familiare di casa Berlusconi è messa a rischio dall’esaurimento del cemento che l’ha tenuta assieme finora: i soldi. Tra il 2005 e il 2010 Mediaset aveva girato a Fininvest 850 milioni di dividendi. Ora quel fiume di denaro si è ridotto a una “mancetta” da 80 milioni negli ultimi sette anni.
Il percorso iniziato dopo la chiusura delle urne su questo fronte ha un traguardo chiaro: mettere in sicurezza il gruppo. Le fughe in avanti di Silvio Berlusconi («se la vendita del Milan mi ha fatto perdere le elezioni, mi toccherà ricomprarlo», ha detto ieri) sono boutade. Il mantra del Biscione è un altro: le partite a rischio – i rossoneri sono costati a Fininvest 900 milioni – vanno chiuse. Come si è fatto senza rimpianti con Premium, accettando di andare a nozze con il diavolo (l’ex-nemico Sky) per bloccare l’emorragia di perdite della pay-tv. Una scelta obbligata per arrivare con i conti in ordine all’” Ora X” – inevitabile e non troppo lontana, dicono in molti – di Mediaset: quella in cui i Berlusconi, seguendo l’esempio delle altre grandi dinastie familiari italiane, potrebbero mollare la presa su Mediaset. Vendendola (ipotesi oggi improbabile) oppure inserendola nel valzer di alleanze tra media e tlc per limitarsi – come soci di minoranza – a campare di dividendi.
Fantafinanza? Si vedrà. I lavori sono comunque partiti a tutto campo. Il piano di risanamento, grazie all’asse con Sky, viaggia in anticipo sulle previsioni. Il 2017 si è chiuso in attivo e Arcore è pronta a valutare ogni opportunità, con un occhio sul dossier Telecom. In prima battuta per un’intesa sui contenuti, ma lasciando tutte le opzioni aperte se si dovesse formare una cordata made in Italy per salvare l’ex monopolio tlc da Vivendi.
I manager di Cologno, più pragmatici, sono invece impegnati a limitare i danni dell’auto-editto bulgaro imposto dall’ex- premier con il ridimensionamento di Giordano, Belpietro e Del Debbio. La politica – dicono in Mediaset – non c’entra. La decisione è maturata prima delle elezioni per problemi di audience. «Il populismo in tv è come la dopamina – racconta un manager -. Fa ascolti all’inizio, poi dà assuefazione». La programmazione è stata così rivista in versione “soft” con la nomina di Paolo Liguori a “commissario” editoriale. E ora si parla dell’arrivo di nuovi conduttori in grado di garantire un dibattito politico “stile-Lilli Gruber”, come dicono a Cologno, abbandonando quell’iper-populismo che con buona pace delle accuse di Di Maio – ironizzano gli uomini del Cavaliere – «ha finito il 4 marzo per aiutare proprio i grillini».