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 2018  aprile 27 Venerdì calendario

In morte di Pietro Marzotto

Paolo Bricco per Il Sole 24 Ore
Con l’addio di Pietro Marzotto, il nostro Paese saluta un pezzo di se stesso e della sua Storia. Uno dice la Marzotto. Come direbbe la Fiat e la Pirelli, la Falck e la Olivetti. Uno cita Pietro Marzotto. Come citerebbe Gianni e Umberto Agnelli, Leopoldo Pirelli e Alberto Falck, Adriano e Roberto Olivetti.
Sono queste le due generazioni che hanno costruito l’Italia nella sua natura di Paese delle Fabbriche e nei suoi equilibri fra potere economico e potere politico, fra rappresentanza degli interessi e individui – famiglie, nello specifico italiano – che hanno conquistato un benessere discontinuo, ma progressivo.
Pietro Marzotto incarna l’anima manifatturiera e insieme contadina, il Veneto umile della sua Valdagno che diventa uno dei più operosi centri industriali del Paese, l’attaccamento alle radici dell’Alto Vicentino e anche la gioia di vivere di Cortina e il fascino senza tempo di Venezia.
Ultimo di sette fratelli – nato l’11 dicembre 1937 a Valdagno – il figlio del Conte Gaetano Marzotto si laurea in giurisprudenza a Milano e svolge – nell’ultimo periodo universitario – un periodo come semplice apprendistato da operaio negli stabilimenti di Mortara e di Valdagno. Qualcosa di molto lontano dalla concezione odierna di un mondo sempre più propenso alla dematerializzazione e alla finanziarizzazione. Un gesto, invece, per nulla retorico, ma assai concreto, che creava le basi – fin dalla più giovane età – per il futuro imprenditore – anzi, il futuro industriale – di un rapporto simbiotico con i suoi operai, con i suoi stabilimenti, con la sua comunità.
Gli anni Sessanta sono anni di conflitti. Il 19 aprile del 1968, le agitazioni operaie sono così intense da trasformarsi in moti di piazza e da portare all’abbattimento della statua di Gaetano Marzotto. I due stabilimenti di Valdagno sono occupati. Il clima è quello. Nel 1971, Pietro Marzotto diventa direttore delle attività tessili dell’azienda di famiglia. Nel 1972, è amministratore delegato. Sono appunto ancora gli anni delle lotte di fabbrica e del confronto duro con il sindacato, che nello specifico di un territorio e di una impresa con una specializzazione produttiva come il tessile ad alto impatto ambientale non sono soltanto concentrati sui salari, ma anche sulla salute. Sono pure gli anni in cui si conferma il modello di Welfare ante litteram della Marzotto, secondo una linea tipica di molte imprese italiane del Novecento: il centro sociale, le case aziendali, l’asilo, l’ospedale, la colonia estiva per i figli dei dipendenti a Jesolo. Una tendenza di lungo periodo, con Gaetano fatto Conte dal Governo Mussolini nel 1939 per le istituzioni assistenziali realizzate in azienda e sul territorio. 
Nel 1980, Pietro Marzotto è vicepresidente esecutivo. Nello stesso anno, diventa presidente di Consortium, una società ispirata dalla Mediobanca di Enrico Cuccia e partecipata da molti pezzi del capitalismo italiano che aveva l’obiettivo di ristrutturare aziende strategiche in crisi. In particolare, lui si occupa di elaborare il piano di risanamento della Snia Viscosa. Nel 1982 torna in pianta stabile nel gruppo assumendone la guida con la carica di presidente.
Nell’estate indiana del capitalismo italiano, costituita da quegli anni Ottanta gravidi di successi e di aspettative che poi non verranno confermati e che poi saranno disattese alla prova della globalizzazione iper-concorrenziale degli anni Novanta e Duemila, il gruppo di Valdagno elabora strategie accorte, adopera leve efficaci, fa cose più giuste: internazionalizzazione, con una quota crescente del giro d’affari ottenuta sui mercati stranieri, diversificazione (in particolare nella prima parte, introducendo il lino rispetto alla lana) e simbiosi fra il tessile e l’abbigliamento, in particolare tramite la politica dei marchi. Alla fine di quel periodo, gli addetti sono oltre 11mila. A quel punto, la Marzotto è una multinazionale.
Nel 1991, la Marzotto entra nella confezione acquisendo il marchio tedesco Hugo Boss. La politica di focalizzazione e di costruzione di un sistema societario efficiente ha un passaggio mancato nel 1997, quando non si realizza la fusione con la Hdp, nata dalla scissione delle attività industriali di Gemina (per esempio, Fila e Gft). Il progetto di un gruppo consistente e coeso, integrato e diversificato rimane una delle incompiute del capitalismo italiano, nonostante l’acquisizione nel 2002 di Valentino e la quotazione nel 2005 del Valentino Fashion Group.
La traiettoria di Pietro Marzotto è segnata da una intensa vita personale: ha quattro relazioni importanti, si sposa tre volte e ha quattro figli. La prima volta si sposa con l’inglese Stefania Searle, da cui ha tre figli: Umberto, Italia e Marina. Poi ha come compagna Titti Ogniben, da cui ha il quar to figlio, Pier Leone. La seconda volta si sposa con Mariolina Doria De Zuliani. La terza volta si sposa con Anna Maria Agosto Peghin.
La vita del Conte si divide fra il privato e il pubblico, fra le aziende e l’impegno nella rappresentanza, tanto da essere presidente dell’Associazione Industriale di Vicenza e dell’Associazione dell’Industria Laniera Italiana, oltre che vicepresidente di Confindustria (dal 1982 al 1984 con Vittorio Merloni, dal 1988 al 1990 con Sergio Pininfarina e dal 1996 al 1998 con Giorgio Fossa) e consigliere delegato per il Centro Studi Confindustria (dal 1994 al 1996 con Luigi Abete). 
Nella sua esistenza, un tema particolarmente delicato è stato quello della sorte delle imprese familiari, un canone ben incarnato dalla Marzotto. Fin dagli anni Ottanta, Pietro Marzotto riflette sul tema della managerializzazione dell’impresa, sull’ipotesi di una public company – modello anglosassone ad alta diffusione dei diritti di proprietà – e sul destino del capitalismo familiare che, se privo di una governance chiara ed efficiente, rischia di essere minato dal frazionamento delle quote di proprietà in capo agli eredi degli eredi degli eredi degli eredi. Alla fine, partendo dalla posizione di azionista di maggioranza relativa, progressivamente cede le sue quote lasciando la carica di presidente esecutivo nel 2004.
Con lui dunque se ne va il Conte, in quella galleria delle personalità del nostro Novecento che, con il passare degli anni, è sempre più una casa degli spiriti.

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Gian Antonio Stella per il Corriere della Sera
«Vieni?» «Sì». «Con la bombola?» «Sì». Ci voleva ben altro che il fastidio di tirarsi dietro una bomboletta di ossigeno per scoraggiare un combattente come Pietro Marzotto. E così, ancora pochi giorni fa, aveva cercato fino all’ultimo di essere presente al palladiano Teatro Olimpico, per raccontare al Festival Città Impresa l’ultimo mezzo secolo del suo Veneto, della sua Vicenza, della sua Valdagno: «Il 1° gennaio 1968 diventai direttore con pieni poteri, il 19 aprile la statua di mio nonno venne buttata giù». Si bloccò un attimo: «Oh, ma non parlemo solo de robe vecie! Parliamo di oggi. Se no sto a casa». 
Così era fatto, l’uomo che per alcuni decenni ha rappresentato uno dei punti di riferimento della grande e più illuminata imprenditoria italiana. Lunedì mattina, già ricoverato in condizioni critiche all’ospedale di Portogruaro, dove si sarebbe spento ieri, ancora raccomandava agli amici di non mancare alla festa campestre che dava da anni per il 25 aprile nella sua tenuta di Zignago, sospesa tra la terra e le acque dalle parti della laguna di Caorle. Amava gli amici, e gli amici amavano lui. 
Nato a Valdagno l’11 dicembre 1937, battezzato con il nome di Badoglio («Fu mio padrino virtuale. Disse a mio padre: sarà un maschio, si chiamerà Pietro. Disse anche: sarà maresciallo d’Italia. Ma lì si sbagliò»), era ultimo di sette fratelli eredi di una antica dinastia laniera. Dinastia affermatasi nella valle dagli anni Trenta dell’Ottocento e diventata via via un colosso italiano e mondiale noto anche per l’edificazione della «Città sociale» e il capitalismo paternalista: l’asilo Marzotto, la piscina Marzotto, i quartieri Marzotto, la scuola Marzotto… 
Sulle prime, il giovane Pietro pareva buttar bene sullo sci nautico (vincerà due campionati europei), meno nello studio. «Finché mio padre mi mise a fare l’apprendista operaio: un giorno al reparto filatura, l’altro alla tessitura e così via. Sempre in nero: non mi versava i contributi. Dopo qualche anno di questa vita preferii iscrivermi all’università. Studiai legge a Milano e, una volta laureato, avrei voluto fare il professore. I consigli di mio padre e i magri stipendi da docente mi hanno convinto a tornare in azienda».
Da quel momento, su, su, su: direttore centrale nel 1968, amministratore delegato nel 1972, presidente nel 1982… Tutte date pari. Per le acquisizioni chiave invece, rideva, preferiva gli anni dispari: nell’85 gran parte della Finbassetti, nell’87 la Lanerossi (storica conquista di Schio da parte della signoria di Valdagno), nell’89 la francese Leblan (prima campagna acquisti all’estero), nel ’91 la tedesca Hugo Boss che quattro anni dopo avrebbe fatturato quasi 800 milioni di euro d’oggi. «Ora gli stranieri fanno shopping tra le aziende italiane», ricorderà lo storico Giorgio Roverato alla festa per gli ottant’anni celebrata a Valdagno dove il vecchio leone, coccolato dalla moglie Anna e dai figli arrivò col suo «ossigeno da passeggio» reggendo impavido un’ora e mezzo di dibattito. «Questo lo fa ancora più grande», sospira Romano Prodi, «Così era. Un uomo profondo, attento, corretto, che sapeva ascoltare». 
Presa in mano l’azienda in momenti difficili, sotto il peso di quella statua abbattuta, a metà degli anni 90 Pietro Marzotto era alla guida di un gruppo «primo al mondo nel lino, primo nei tessuti di lana, primo nell’abbigliamento formale da uomo», con un fatturato netto intorno ai 2.600 miliardi di lire e stabilimenti in tutta Europa che producevano, stando alle stime, «oltre nove milioni di capi l’anno: un milione di abiti, un milione di giacche, tre milioni di pantaloni...».
A lungo vicepresidente di Confindustria e candidato più volte al vertice (possibile che un veneto non fosse mai riuscito a guidare l’associazione nonostante il boom regionale?) liquidò sempre le polemiche ammiccando: «Ma no, mi hanno offerto la presidenza più volte, ma ero io a non essere disponibile. Io mi sono sempre sentito un industriale, non un confindustriale. Anzi, ci abbiamo sempre riso sopra: noi industriali passavamo sei giorni in azienda e uno in Confindustria. I confindustriali il contrario».
Legatissimo ai fratelli e alla famiglia, spiegò a Giancarlo Mazzuca che all’ereditarietà dello spirito imprenditoriale non credeva: «Può darsi che qualche cromosoma si trasmetta di padre in figlio ma l’azienda non può essere considerata una specie di monarchia». E concluse: «Ai miei figli ho dato questo consiglio: occorre farsi le ossa in un’azienda esterna. Se poi uno ha dimostrato di saper farsi valere può tornare nella fabbrica di papà per essere pronto a succedergli. In caso contrario, è meglio che cambi mestiere».
Nel giugno del 2004, decise infine di chiudere. A dire il vero si era già allontanato da tempo dai ruoli operativi in azienda definendosi «un semplice azionista che riscuote i dividendi». «Ecco, adesso non è più nemmeno azionista», scrisse sul Giornale di Vicenza Marino Smiderle, «ha venduto le sue azioni per oltre 100 milioni di euro, chiudendo, di fatto, un’epoca. Con l’azienda della sua vita, da ieri, ha in comune soltanto il cognome». E un’amarezza confidata anni dopo così: «Avevo una visione diversa dalla maggior parte degli azionisti. Pensavo a molti soci con dividendi ordinari, loro invece a un’azienda più magra con dividendi più alti. E hanno venduto Hugo Boss. Non ero d’accordo».
Lasciata l’azienda che aveva contribuito a far diventare grande, si dedicò («con minor successo», strizzava l’occhiolino) al problema dei cormorani nella tenuta di Zignago, che il padre aveva venduto e lui ricomprato: «Sono una pestilenza. Mi fan fuori tutto il pesce sfalsando ogni equilibrio ambientale. Pare che tutti i cormorani del mondo si siano dati appuntamento da me». Fra i canali, le valli da pesca, i cipressi, gli olmi, i pioppi e i cedri, giurava, si trovava da re: «È anche un modo per ringiovanire un po’. Sa, sempre tessuti, confezioni, giacche... Uno invecchia». 
Orgoglioso che nel 1943 il padre avesse «assunto 2.000 operai per evitare la loro deportazione in Germania», liberale, vicino alle ragioni del centro sinistra, confidava di aver subito troppe delusioni: «Soprattutto da Matteo Renzi: da lui mi aspettavo molto. Berlusconi? Da lui non mi aspettavo nulla». Sui leghisti sbuffava, sui grillini brontolava: «Boh…». Non sopportava «l’ostilità preconcetta al cambiamento che ha portato a un degrado drammatico. Causa del problema numero uno: la sfiducia dei cittadini verso le istituzioni. Questo teatrino, questo spettacolino…». Non smise mai, però, di ribadire: «Ci vuole rispetto per le istituzioni: ce l’ho per il Parlamento, anche se non lo merita. E per il governo, anche se fa delle sciocchezze. Rispetto». 
Amava il mare, i fiumi, gli stagni e le lagune dove andava a caccia. Rifiutava l’acqua da bere ridendo con smorfie esagerate: «Puah! Passami il vino». Amava far da mangiare: «In vacanza posso perdere anche tre ore al giorno per far la spesa e un paio ai fornelli». Più ancora amava dividere pane, pesci e bicchierate con le persone cui voleva bene. Mancherà. Non solo a loro.