il Fatto Quotidiano, 27 aprile 2018
L’orgoglio sardo val bene una messa
Domani mattina alle 9:30 il numero due della segreteria di Stato vaticana Angelo Becciu (sardo di Pattada, il paese dei coltelli) inizierà la Messa in diretta tv con una formula inedita non solo per Rai3: “In nòmini de su Babbu de su Fillu e de s’Ispìridu Santu”. Dalla cattedrale di Cagliari andrà così in onda la prima assoluta della Messa in sardo, un evento culturale carico di significati.
Il primo è politico. La Chiesa sarda partecipa compatta alle celebrazioni di Sa Die de sa Sardigna, vera e propria festa nazionale istituita 25 anni fa dalla Regione a statuto speciale. Ricorda l’insurrezione del 28 aprile 1794 contro i piemontesi. Il viceré Vincenzo Balbiano ordinò l’arresto di due indipendentisti ante litteram, gli avvocati cagliaritani Vincenzo Cabras ed Efisio Pintor (quest’ultimo antenato di Luigi, uno dei fondatori del Manifesto). La borghesia sarda si ribellò e cacciò dall’isola Balbiano e gli altri 514 funzionari piemontesi. Una soddisfazione che la Chiesa con i Savoia non si è mai presa, da quando le sono entrati in casa il 20 settembre del 1870. E sarà per questo che la Conferenza episcopale sarda partecipa solennemente a una festa vera (le scuole sono chiuse) dell’orgoglio isolano, lo Stato italiano un po’ meno, forse perché è filiazione diretta di quello che si chiamava Regno di Sardegna. Anzi, per dirla tutta, gli organizzatori – che stavolta hanno fatto le cose in grande per la coincidenza con i 70 anni dello Statuto Speciale promulgato il 26 febbraio 1948 – non sono riusciti ad avere a Cagliari per l’occasione nessun rappresentante del governo nazionale. Cosa che per gli indipendentisti più conseguenti non è neppure una brutta notizia.
C’è poi un interesse linguistico in questa storia. Lasciando da parte l’ignoranza di chi ha definito il sardo una forma vernacolare, stiamo parlando di una lingua vera e complessa, con storia, struttura, grammatica e vocabolari. Al punto che non mancano gli eccessi di sardinian pride, come quello di un certo Bartolomeo Porcheddu che, come ha annunciato l’agenzia Ansa il 25 aprile, starebbe per pubblicare un libro con la singolare teoria che il sardo non sarebbe una lingua neo-latina (come l’italiano, il francese, lo spagnolo, il rumeno eccetera) ma al contrario sarebbe il latino una derivazione del sardo. “Nel latino di oggi (sic, ndr) – sostiene “l’esperto e appassionato di cose sarde” – troviamo il sardo di tremila anni fa”.
Restando alle cose serie, il fatto è che sa limba (la lingua) sono almeno due, il logudorese del nord e il campidanese del sud. Tanto che l’antico dibattito sul bilinguismo (il sardo si insegna nelle scuole) è tradizionalmente accompagnato da tentativi di creare artificialmente una sorta di esperanto valido per tutti i sardi. La Chiesa ha seguito la linea più realistica e coerente con il marketing modernizzato della Chiesa di Bergoglio. È stato proprio Papa Francesco, convinto che le lingue madri siano lo strumento più efficace per comunicare la fede subito dopo l’elezione, a incoraggiare i vescovi sardi sulla strada della Messa in sardo. Da qui il lavoro di anni di fior di linguisti e teologi nella traduzione in entrambe le lingue sarde.
Le versioni in logudorese e campidanese non sono tratte da quella in italiano ma direttamente dal latino, dal greco e dall’ebraico, con una ricerca di espressioni più dirette e comprensibili. I risultati sono talvolta sorprendenti. “Rimetti a noi i nostri debiti” del Padre Nostro diventa “perdona-nosì is pecaus nostus”, ma nella versione logudorese rimane il concetto del peccato come offesa (“comente nois perdonamus a sos inimigos nostros”), mentre in campidanese torna l’equivalenza debito-colpa, come in tedesco: “comenti nosàterus dhus perdonaus a is depidoris nostus”.
C’è infine una nemesi storica. Per secoli i sardi, come tutti gli altri popoli, hanno borbottato in latino senza capire il senso di quei suoni e assimilandoli a parole note benché insensate. La consonanza tra latino e sardo aiutava. I bambini (e qualche adulto) amavano trasformare il “procedenti ab utroque” del Tantum Ergo nel beffardo “procededdus a ogus trottus”, che vuol dire “maialetti con gli occhi storti”.
Antonio Gramsci, in una lettera dal carcere alla sorella Teresina, ricordava il personaggio mitico di Donna Bisodia: “Ti ricordi che zia Grazia credeva fosse esistita una donna Bisodia molto pia, tanto che il suo nome veniva sempre ripetuto nel Pater noster? Era il dona nobis hodie che lei, come molte altre, leggeva ‘donna Bisodia’ e impersonava in una dama del tempo passato, quando tutti andavano in Chiesa e c’era ancora un po’ di religione in questo mondo. (…) Quante volte zia Grazia avrà detto a Grazietta, a Emma e anche a te forse: ‘Ah, tu non sei certo come donna Bisodia!’ quando non volevate andare a confessarvi per l’obbligo pasquale”.
A queste antiche incomprensioni si era posto fine con la Messa in italiano. Ma a maggior ragione colpisce come un’organizzazione autoritaria come la Chiesa sia più svelta dello Stato a servirsi della lingua con cui i sardi riescono a pensare cose intraducibili in italiano. E a dare ai suoi clienti la libertà di scegliere se pregare “Dio padre onnipotente” o “Deus Babbu nostu totu poderosu”.