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 2018  aprile 26 Giovedì calendario

APPUNTI PER GAZZETTA - FINE DELLA MISSIONE FICOREPUBBLICA.ITROMA - Luigi Di Maio chiede al Pd, ma anche al M5s, di fare un passo avanti per il bene del Paese

APPUNTI PER GAZZETTA - FINE DELLA MISSIONE FICO

REPUBBLICA.IT
ROMA - Luigi Di Maio chiede al Pd, ma anche al M5s, di fare un passo avanti per il bene del Paese. Senza rinnegare distanze che, evidentemente, esistono. Il leader pentastellato propone ai dem non un compromesso, ma un accordo di governo "al rialzo". E se non si arriverà al risultato, non resterà che tornare alle urne. Con la personale certezza, sottolinea Di Maio, che il M5s crescerà ancora. Questa la sintesi del pensiero del candidato premier del M5s dopo la seconda consultazione con il presidente della Camera Roberto Fico. A esprimere la posizione del Pd, due ore prima, era stato il segretario reggente Maurizio Martina: "Passi avanti importanti, ma restano differenze. Decideremo in direzione".

Questo a conclusione del secondo gito di consultazioni del presidente della Camera Roberto Fico, che nel pomeriggio riferisce a Mattarella e poi condivide con la stampa i segnali positivi raccolti, spiegando che il suo mandato si conclude qui. "Tra Movimento 5 stelle e Partito democratico il dialogo è avviato. In questi giorni ci sarà dialogo in seno alle due forze politiche, aspettando la direzione del Partito democratico della settimana prossima. Credo sia importante, ragionevole e responsabile rimanere sui temi e sui programmi. Il mandato esplorativo che mi ha affidato il presidente della Repubblica ha avuto esito positivo ed è concluso".

I messaggi di Di Maio ai militanti e al Pd
E dunque arriva il messaggio di Di Maio ai suoi militanti e al Pd: "Abbiamo il 32 per cento - attacca Di Maio -. Non siamo autonomi e quindi stiamo cercando di portare a casa un buon contratto di governo al rialzo. Potevamo fare anche noi gli interessi di parte, potevamo fare come la Lega. Ma io non vedo l’ora di mettermi al lavoro" sui problemi dei giovani, degli anziani, delle famiglie e delle imprese, dice Di Maio. "Credo - insiste - che dal voto del 4 marzo siano uscite delle richieste sui problemi dei pensionati rispetto alla legge Fornero, i problemi del precariato rispetto alle leggi sul lavoro, problemi legati a insegnanti che devono fare mille chilometri per andare a lavorare, problemi sulle grandi opere inutili".

Quindi, l’invito a fare un passo avanti, guardando non solo al Pd ma anche in "casa". "Io capisco chi tra i nostri dice ’mai col Pd’, come capisco chi tra gli elettori del Pd dice ’mai con il M5s’.  Ma qui si sta parlando non di negare differenze anche profonde. Stiamo semplicemente cominciando a ragionare in un’ottica non di schieramento". E qui, la richiesta di uno "sforzo" al Pd perché non chieda "al Movimento 5 stelle di negare le battaglie storiche", dice il capo politico del Movimento in riferimento ad "alcune dichiarazioni in questi giorni" di esponenti del Pd, precisando: "E non mi riferisco alla linea espressa dal segretario Martina, che apprezziamo". Bisogna fare un passo indietro rispetto alle divisioni e uno in avanti per il Paese. "E’ un’opportunità, questa diciottesima legislatura - è l’ultimo invito di Di Maio -. Se si riescono a fare le cose bene, altrimenti si torna al voto. E se si torna al voto io sono convinto che il Movimento 5 stelle ne uscirà rafforzato".
Poi una bella bordata a Silvio Berlusconi, che ieri, 25 aprile, nonostante i continui richiami di Matteo Salvini a finirla con gli insulti, ha paragonato l’ascesa del M5s agli occhi degli italiani a quella di Hitler per gli ebrei, un "pericolo per il Paese".  Ed ecco la replica di Di Maio: "Bisogna mettere mano a questo continuo conflitto di interesse che c’è in Italia. Penso ad esempio al fatto che Berlusconi usando le sue tv continua a mandare velate minacce a Salvini".

Il Pd si affida alla direzione del 3 maggio
Un paio di ore prima, Fico e il Pd, atto secondo. Il presidente della Camera e la delegazione dem guidata dal reggente Maurizio Martina, si sono ritrovati questa mattina a 72 ore di distanza dal loro primo incontro. Tre giorni in cui i vertici del Movimento e quelli del Pd hanno dovuto far fronte soprattutto ai reciproci malumori interni: militanti in rivolta, malumori tra i gruppi dirigenti, accordo sì, accordo no.

"Ci sono stati passi avanti", dice il reggente Martina, e annuncia la convocazione della direzione del Pd per il 3 maggio "per decidere se e come accedere a questo confronto con i 5s. Insieme discutiamo e poi insieme lavoriamo". Una chiosa arriva da Andrea Marcucci, capogruppo dem al Senato e vicino a Renzi: "Se il dialogo partisse, la nostra base sarebbe il programma in 100 punti del Pd". Per adesso, la linea del dialogo nel Pd è formalmente aperta. Ma le divisioni di fondo su un’alleanza di governo con i 5Stelle restano. E forse sono persino acuite da un paio di passaggi del discorso di Di Maio - insegnanti, grandi opere e critiche di esponenti dem non riconducibili all’"apprezzabile" Martina  - che avrebbero irritato i renziani.

Resta l’altro attore, quello del "forno" che almeno in questo momento sembra spento. Matteo Salvini segue a distanza gli sviluppi, guardando sempre al M5s: "Io non chiudo la porta in faccia a nessuno, spero che la telenovela tra Renzi e Di Maio non duri troppo e secondo me sarebbe un governo irrispettoso per gli italiani. Quando avranno finito il loro amoreggiamento, se gli andasse male come io penso, io ci sono. Gli italiani hanno votato un programma e una squadra e io non tradisco. E da leader del centrodestra mi faccio garante del fatto che qualcuno nella coalizione la smetta di sobillare". Ovvero, Silvio Berlusconi. Che da Udine si dice convinto: "Non credo che arriveranno a un accordo M5s e Pd, che è nostro avversario ma è certamente un partito democratico: se il Pd si accoppiasse con M5s segnerebbe la sua scomparsa dal panorama politico italiano".

CLAUDIO TITO SU REPUBBLICA STAMATTINA
Soprattutto non intende intervenire in modo diretto nella trattativa in corso tra il Movimento 5Stelle e il Pd per la formazione del nuovo governo. Eppure, dopo la mattinata trascorsa a festeggiare il 25 aprile nella sua città, qualche commento gli sfugge. E certo non si tratta di ottimismo rispetto all’eventuale intesa con i grillini. Anzi, questo negoziato gli risulta sostanzialmente indigesto. Nel metodo e nel merito. L’ex segretario ha utilizzato proprio questa festa laica, considerata uno dei simboli più autenticamente di sinistra, per tastare gli umori del “ popolo dem”. Certo si tratta di Firenze, la sua città, e di una regione che almeno in quell’area ha mantenuto - anche se faticosamente - l’aggettivo « rossa » . Per Renzi, però, rappresenta comunque un segnale inequivocabile: la base del partito non vuole il patto con i pentastellati. « Mi avvicinavano e mi chiedevano: allora che si fa? E io gli rispondevo: ditemelo voi». La sintesi di questo sondaggio un pò improvvisato la traccia il segretario cittadino del Pd , Massimiliano Piccioli. Per tutta la mattinata è stato al fianco del suo leader di riferimento e non ha esitazioni: « Se si fa questo accordo, mi dimetto immediatamente». «Io sono una sfinge», ripete intanto l’ex premier. Ma le sue valutazioni sono piuttosto chiare e il giudizio sulle scelte compiute dal segretario reggente Martina abbastanza netto. « I tempi con cui si è fatta questa operazione sono sbagliati. I percorsi politici non si improvvisano. Bisognava prima far consumare il fallimento di Salvini e dei grillini. E poi convincere la nostra base. Così invece... ». L’aver poi sostanzialmente sdoganato la premiership di Di Maio viene vissuta, secondo l’ex segretario, come una resa da parte dei militanti dem. I renziani allora stanno già facendo i conti per soppesare i rapporti di forza negli organismi dirigenti e nei gruppi di Camera e Senato. Sono convinti di avere la maggioranza in direzione e anche tra i parlamentari. Anche perchè serve almeno l’ 85 per cento di senatori e deputati per garantire la maggioranza a un esecutivo con i grillini. E se si fa il calcolo di chi si sta esprimendo sui social, quella soglia è già lontanissima. Non è un caso che Renzi in questi giorni abbia invertito la tattica che ha sempre usato almeno fino al 5 marzo. Il partito veniva sistematicamente bypassato, ora è il centro nevralgico della sua “sfingica” perplessità. Al punto di chiedere il voto non della direzione, ma dell’assemblea e anche di tutti gli iscritti con un referendum prima di dare il via libera all’ipotetico patto con il M5S che dovesse essere proposto da Martina. L’ala “ trattativista” è consapevole della ritrosia renziana. Sa anche che i numeri in direzione e nei gruppi non le sono favorevoli. E rispetto a qualche settimana fa non può contare sull’aiuto di Paolo Gentiloni. Il premier, anche per tenere fede all’impegno assunto con il presidente della Repubblica, si tiene fuori dalla contesa. E in questo caso, anche nel merito, non è poi così convinto che la soluzione migliore possa essere l’abbraccio con Di Maio. In questo modo la sponda diPalazzo Chigi che in passato un peso l’ha avuto, adesso si sta attenuando. Non è un caso che anche nell’M5S si stiano preparando al peggio. Del resto, anche la loro base è entrata in fibrillazione. Un’alleanza con i democratici viene considerata da molti una stilettata al cuore dei refrain grillini. Soprattutto il vertice del Movimento e molti dei suoi parlamentari iniziano a nutrire un timore. Che non riguarda la premiership di Di Maio, bensì le condizioni che il Pd può porre al cosiddetto “contratto”. Il pressing renziano, infatti, avrà perlomeno l’effetto di alzare l’asticella delle richieste dem. E se tra quelle figurasse, non tanto la difesa dell’Unione europea e l’appartenenza alla Nato, ma il mantenimento del Jobs act con l’annessa abolizione dell’articolo 18 e la conservazione della riforma Fornero sulle pensioni, allora saranno i pentastellati a doversi assumere la responsabilità di dire no e di mostrarsi in pubblico dei panettieri senza farina anche nel secondo forno. La piattaforma Rousseau, infatti, sarebbe a quel punto una semplice ratifica di una impossibilità dichiarata. Una situazione che sta mettendo ancor di più in allarme il Quirinale. Il fallimento anche dell’opzione M5S-Pd rischia di mettere il Colle dinanzi a scelte radicali. La terza via di Mattarella, infatti, è quella che porta al governo del presidente. Il capo dello Stato però non si aspettava affatto che Di Maio - dopo la consultazione con Fico - sottolineasse con quella veemenza la sua contrarietà a quel tipo di soluzione. Il combinato disposto tra il potenziale fiasco della trattativa tra pentastellati e dem e l’esclusione di altre ipotesi, rimaterializza lo spettro del ritorno alle urne. Ma per votare a giugno c’è una data limite per sciogliere le Camere: il 9 maggio. Superato quel giorno tutti i confronti assumerano un altro tono. Forse anche più drammatico.