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 2018  aprile 25 Mercoledì calendario

«Un fascino da cui sapersi difendere»

Socializzare su Facebook, pontificare su Twitter, lavorare su Skype e poi ologrammi di rockstar decedute che cantano sui palchi del Billboard Music Award. Non sarà come vivere in «Matrix», ma poco ci manca. L’Intelligenza Artificiale ha conquistato il mercato delle relazioni umane: c’è «Jibo», il robot da compagnia che scimmiotta i cartoni animati della Pixar, c’è l’umanoide di UBtech in grado di riconoscere la voce del padrone ed effettuare ordini su Amazon e, ancora, c’è Kirobo Mini, capace di sostenere conversazioni e riconoscere le espressioni facciali. Ecco, appunto: il salto di qualità sta nell’avere reso «friendly» l’Intelligenza Artificiale. Tanto che una fetta di questo mercato, oggi, è l’assistenza ai pazienti e a chi soffre di Alzheimer.
La direzione è buona, purché vi siano regole: i robot devono restare tali per l’ammalato e non essere scambiati per essere viventi verso i quali l’investimento affettivo nuocerebbe. Ma «il rischio c’è», spiega Andrea Bertolini, ricercatore di diritto privato all’Istituto Dirpolis della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e professore all’Università di Pisa. Bertolini si occupa delle implicazioni legali, economiche ed etiche della robotica e ha offerto il proprio contributo al convegno «L’assistenza agli anziani» di Rimini a cura del Centro Studi Erickson: «Esiste una soglia nella capacità di biomimesi oltre alla quale l’automa può ingannare l’uomo, specialmente se le sue relazioni sono limitate».
Proprio la capacità di ingannare, secondo il celebre test di Alan Turing, è l’elemento che distinguerebbe una macchina da un essere vivente e il discrimine non è più così irraggiungibile. «Comportamenti programmati e fattezze umanoidi evocano empatia – precisa il ricercatore -: pensiamo alle immagini di Angela Merkel alla fiera dell’hi-tech di Hannover immortalata con iCub, l’androide dell’Iit, mentre gli sorride come si farebbe a un bimbo».
Dire se queste reazioni sono un bene o un male è difficile. Sono un bene, se stimolano il paziente in vari compiti quotidiani, e d’altro canto la capacità empatica potrebbe essere sfruttata per indurre gli umani a comportamenti contro il proprio stesso interesse: esattamente come fanno i software che dal web ci propongono pubblicità e contratti. «Il mio pc non suscita empatia, quando mi dice “Hai 10 giorni per rinnovare l’antivirus”, ma, se le richieste provenissero da un umanoide, potrei essere indotto a fraternizzare più facilmente».
Chiunque può subire in modo abnorme il fascino degli umanoidi. Viene da pensare – ricorda Bertolini – al blogger giapponese Sal9000 che ha «sposato» un Nintendo DS o, meglio, il personaggio virtuale Nene Anegasaki, protagonista del gioco «Love Plus». E c’è il caso di Sophia, il primo robot a cui è stata concessa una cittadinanza. La questione etica è legittima: fino a che punto è lecito programmare un robot per suscitare l’attenzione degli umani o, meglio, per «ingannarli»?