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 2018  aprile 25 Mercoledì calendario

Un’idea eroica della modernità. Zevi raccontato dai “suoi” architetti

Una mostra su Bruno Zevi che non è una mostra su Bruno Zevi ma che ha come curatore Bruno Zevi. Uno, cento, mille Bruno Zevi, l’architetto, il docente, l’urbanista, il polemista, l’anchorman, il politico. Dissonanza è la parola chiave perché «l’architettura non va lasciata ai soli architetti, è un bene della società». Così, nel centenario della sua nascita, si apre oggi al Maxxi di Roma (fino al 16 settembre) «Gli architetti di Zevi. Storia e controstoria dell’architettura italiana 1944-2000», mostra realizzata con la Fondazione Bruno Zevi e curata da Pippo Ciorra e Jean-Luis Cohen. Ed è proprio quest’ultimo, il primo ideatore di una esposizione nata per essere minimale e cresciuta stratificandosi, a chiamare in causa Zevi stesso, come occulto curatore, ispiratore massimo grazie a una vita spesa nel tentativo riuscito di sposare costruzione e impegno sociale e civile.
Furore e spirito libero, Zevi ci racconta, pannello dopo pannello, i passaggi della sua vita, una riflessione sull’architettura che si intreccia con la biografia e ci porta dentro alla sua battaglia creativa e divulgativa. Uscire dalla geometria di un pensiero convenzionale lo porta a essere un cosmopolita che ha vissuto intensamente e ha segnato il ’900. Eccolo sfuggire alle leggi razziali e riparare in America, studi a Harvard, l’impegno per la democrazia negli anni dell’esilio a Boston, Londra, New York. Il ritorno e la lotta postfascista, l’impegno politico, i libri sulla storia dell’architettura, l’attività didattica, pedagogica e civile, riassunta da Ada Chiara Zevi.
E proprio per non cadere nell’agiografia e nel celebrativo, la genialità di un uomo che aveva un’idea eroica della modernità non viene raccontata attraverso di lui ma grazie a trentotto architetti, da Pier Luigi Nervi a Carlo Scarpa, da Franco Albini a Maurizio Sacripanti, da Piero Sartogo a Renzo Piano, da lui ha formati, stimati, spinti. Più famosi e meno conosciuti, tutti forti di un segno netto filtrato dalla passione. «No all’architettura della repressione, classicista barocca dialettale. Sì all’architettura della libertà, rischiosa anti-idolatrica creativa», tuona Zevi. Sì all’iniezione di energia e di entusiasmo. «Perciò – dicono Cohen e Ciorra – abbiamo reclutato Zevi per una mostra curata da lui, come attraverso uno specchio. A noi il compito di contestualizzare».
Ma c’è molto di più e lo si può leggere tra le righe di riviste, libri, manifesti, documenti audio e video, perché Zevi, primo tra tutti, creò un suo canale per parlare di politica e architettura da consumato intrattenitore. E a seguire, tre incontri per approfondire Zevi, ebreo romano, radicato nell’ambiente culturale della città e con fama globale. Epiche le liti, con Portoghesi fu memorabile la rottura appresso a un’interpretazione classicista michelangiolesca.
La mostra è rivolta ai giovani. Ma è ancora attuale l’approccio zeviano? «Lo è soprattutto nell’idea di far coincidere lo specifico architettonico con lo spazio, introducendo il paesaggio come elemento centrale della modernità». Citando Frank Lloyd Wright, Zevi teorizza lo spazio come «vivibile e umano, al servizio dell’individuo e dell’umanità». Focus sulle mostre epocali del ’56 e del ’64 su Michelangelo e Brunelleschi anti-classico, la grande collaborazione con Olivetti con il quale entra nel corpo della geopolitica con l’idea di una sinistra non comunista per poi tesserarsi tre volte con Pannella. Da non perdere il plastico del Museo del Tesoro di San Lorenzo di Albini a Genova, tra i più importanti progetti del dopoguerra, e i due memoriali ai caduti del nazifascismo: quello di Milano, più intellettuale, e quello della Fosse Ardeatine, più fisico ed emozionale. Non c’è in mostra un progetto non finito, un ponte non eretto. In questo, anche, una mostra «edificante».