la Repubblica, 26 aprile 2018
Una, nessuna, centomila cannucce
Preparatevi, l’apocalisse dei cocktail è vicina, la lotta alla plastica ha raggiunto le cannucce. Si usano per pochi minuti e inquinano per secoli, finendo sminuzzate nelle pance dei pesci, tanto che in molti paesi sembra essere prossima la loro messa al bando. Il parlamento scozzese ha già approvato una specifica legge e quello inglese, dopo un documentario di Sir David Atteborough, sembra si avvii a fare lo stesso, con il ministro dell’ambiente, Michael Grove, che sostiene che grazie alla Brexit sarà più facile. Affermazione prontamente smentita da Frans Timmermans, vice presidente della Commissione Europea, che ribatte (ovviamente su Twitter) che l’Europa varerà una normativa già prima dell’estate. Nel frattempo, in Italia, l’associazione Marevivo ha lanciato una campagna che è diventata operativa a Torino, analogamente a quanto è successo a Bruxelles con un gruppo chiamato What About Waste. Così, mentre le cannuccia-wars impazzano, viene da chiedersi quale sia il senso di questo oggetto e perché sia così importante da piangerne la (presunta) dipartita.
Fu Marvin C. Stone nel 1880 a brevettare una cannuccia realizzata in carta e ricoperta di paraffina, invenzione che, qualche anno più tardi, nel 1937, fu ottimizzata da tale Joseph Friedman. Questi, vedendo la figlia faticare a bere da una cannuccia troppo lunga, creò la caratteristica seghettatura con una vite, in modo che fosse più agevole da piegare. Sembra tuttavia che si possa risalire addirittura ai Sumeri per rintracciare i primi proto- esemplari: nelle tombe del 3.000 a. C. c’erano piccoli tubicini d’oro tempestati di pietre preziose che dovevano servire per bere una bevanda fermentata simile alla birra che rilasciava sul fondo consistenti residui. Perché è a questo che serve davvero la cannuccia, a decidere con precisione cosa bere e cosa no, mantenendo un controllo visivo su una sostanza che, in quanto liquida, non può essere trattenuta dalle nostre mani. A questa funzione però se ne aggiungono molte altre, al punto che oggi quello che potremmo chiamare il suo funzionamento sociale appare del tutto diverso. Prendete i cocktail per l’appunto. Che cosa sarebbe un mojito senza il suo pennacchio nero? Per non dire di quanto sia diverso sorbire una Coca- Cola o un succo d’arancia a bordo piscina potendosi guardare intorno mentre lo si fa. La cannuccia è un esercizio ginnico, ci obbliga ad aspirare ciò che normalmente ingoieremmo, ci fa bere lentamente, e forse chissà, ricorda anche un po’ il latte che succhiavamo da bambini. E poi possiamo sempre usarla per mescolare, per non dire di quello che accade quando il liquido è quasi finito… beh, è allora che viene il divertimento. La cannuccia serve insomma a rompere la monotonia, quella visiva del bicchiere, ma anche quella dell’atto stesso del bere: cambia le regole, inverte la gravità. È lo straordinario, il diverso, celebra il fatto che anche il più necessario degli atti qual è bere possa diventare futile, divertente, strano. Ecco perché, malgrado le leggi presenti e future, le cannucce si moltiplicano. In fondo è tutto un ritorno al passato: dai modelli in metallo (alcuni venduti con l’apposito scovolino per pulirle) a quelli di carta, da quelli di bambù a quelli di vetro. Qualcuno ha perfino pensato di creare cannucce aromatizzate, che a ben pensare sono l’arma perfetta: con esse a far da mediatrici non importa più cosa ci sia nel bicchiere.