Il Sole 24 Ore, 26 aprile 2018
Lehman, a 10 anni dal default i rimborsi raggiungono il 71%
Alle 5 di mattina del 15 settembre del 2008 la quarta maggiore banca degli Stati Uniti, con 25 mila dipendenti in tutto il mondo, chiedeva l’ammissione al Chapter11 dichiarando nella sostanza il default. Quella data ha segnato l’inizio di una lunga era di crisi globali dalle quali, dopo 10 anni, l’Unione europea e in particolare l’Italia stanno iniziando solo negli ultimi tempi a riprendersi.
Quando ha chiuso i battenti – anche se le attività in Europa furono rilevate da Nomura – Lehman Br. aveva 639 miliardi, 155 miliardi di debiti obbligazionari e 613 miliardi di debiti bancari. La banca allora guidata da Dick Fuld pagò più di tutte le altre l’esposizione verso i mutui subprime: solo nel 2007, anno in cui negli States scoppiò la bolla dei mutui dati con troppa leggerezza, sottoscrisse cartolarizzazioni sui subprime per 85 miliardi di dollari.
A inizio 2007, quando era ancora tempo di vacche grasse, la banca capitalizzava 60 miliardi di dollari. In quel settembre nero, quando si preferì il salvataggio di Merrill Lynch (acquistata da Bank of America per 50 miliardi) a quello di Lehman, la banca di Avenue of the Americas aveva perso circa 45 miliardi di capitalizzazione, per un combinato disposto di crisi di fiducia e crisi di liquidità. In quel periodo a lungo si è dibattuto sul fatto che Lehman Br. non doveva essere lasciata fallire e che avrebbe potuto sostenere i suoi debiti.
È in corso in questi giorni la quindicesima distribuzione di rimborsi ai creditori della ex banca Usa: l’amministrazione della società americana Lehman Brothers Holding (Lbhi) ha già pagato la tranche a inizio aprile, mentre il prossimo 2 maggio toccherà alla ex controllata olandese, Lehman Brothers Treasury (che ha una distinta gestione commissariale) procedere alla sua distribuzione (utilizzando i fondi distribuiti dalla casa madre Usa). L’aspetto che colpisce è che a 10 anni dal default (questa è l’ultima distribuzione prima del decennale, la prossima sarà in autunno) gli ex obbligazionisti garantiti hanno raggiunto un recovery rate, un tasso di rimborso sul valore nominale, pari al 71,37 per cento. Una soglia record che non vanta molti precedenti. Non solo: non c’è alcun segnale che i rimborsi debbano terminare nel medio periodo, perché gli amministratori Usa possono contare sui proventi della gestione di asset in bonis e sulla soluzione dei contenziosi (che avevano comunque un valore di svariati miliardi di dollari). Dunque, la prospettiva che si possa arrivare a percentuali ben più elevate e paradossalmente anche al 100% del valore nominale non è affatto remota. L’amministrazione di Lbhi in questi 10 anni ha distribuito 124,6 miliardi di dollari, con un valore medio di 12 miliardi all’anno.
Va precisato, però, che un valore di rimborso così elevato rispetto al nominale beneficia anche dell’effetto cambio: la gran parte degli ex obbligazionisti italiani (50mila) avevano acquistato titoli dal veicolo europeo Lbt, per cui sul rimborso incide il cambio favorevole tra dollaro ed euro. I creditori europei, poi, hanno una sorta di doppio rimborso: uno diretto da Lbt e uno indiretto, in virtù della garanzia sulla società olandese, da Lbhi, che trasferisce i fondi alla ex filiale olandese.
In ogni caso, i numeri di oggi sono ben al di sopra delle iniziali previsioni del piano approvato dall’amministrazione di Lbhi: per gli ex obbligazionisti diretti era previsto un recovery rate del 21%, tasso che oggi (considerato il cambio) ha raggiunto il 50,5 per cento (44,59% al netto del cambio).
«Rispetto al recovery rate inizialmente previsto dal piano piano di Lbhi, calcolato come somma tra il rimborso diretto di Lbhi e quello indiretto – spiega Raffaele Romano dello studio Sge – i bond olandesi stanno beneficiando finora di un miglioramento di 43,57 punti percentuali. Il piano originario Lbhi, infatti, prevedeva il 12,2% diretto e il 15,6% indiretto, per un totale pari al 27,8% al netto dell’effetto cambio».