La Stampa, 26 aprile 2018
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Un esercito di batteri per salvare Buffalmacco
Al centro della scena, nel prologo della narrazione pittorica, due putti alati si librano in volo dispiegando un cartiglio ammonitore: «Schermo di sapere o de richeça / di nobiltà e ancor di gentileça / vaglian niente a’ colpi di costei. / Dè, che non trovi dumque contra lei / o tu lector, niuno argomento? (…)». «Lei», naturalmente, è la Nera Signora che nelle sue svariate epifanie, premesse e conseguenze, nelle invocazioni e nei vani tentativi di rimozione domina da un capo all’altro il grande affresco trecentesco noto come Trionfo della Morte, il più celebre e emblematico del ciclo che decora le pareti interne del Camposanto Monumentale di Pisa.
Questa è una storia di miracoli e di mistero. I miracoli che hanno consentito di salvare un capolavoro del tardo Medioevo. E il mistero del suo autore – il cosiddetto Maestro del Trionfo della Morte, difficile da incasellare, lontano dal coevo Giotto, di cultura mista con reminiscenze di area emiliana – che solo all’inizio degli Anni 70 del ’900 è stato identificato dallo storico dell’arte Luciano Bellosi in Buonamico Buffalmacco: un pittore sfuggente, nato a Firenze intorno alla fine del ’200 e documentato almeno fino al 1341, quando dopo cinque anni concluse i suoi lavori a Pisa, noto soprattutto come personaggio delle novelle di Sacchetti e di Boccaccio, dove compare nelle vesti dell’individuo astuto che prende «gran festa» della «semplicità» altrui, e segnatamente del povero collega Calandrino.
L’incendio del luglio ’44
Sui duemila metri quadrati di affreschi del Camposanto, già compromessi dal tempo, il 27 luglio 1944 si era abbattuta l’ultima maledizione: una salva di artiglieria lanciata dagli americani aveva colpito di striscio il tetto di piombo dell’edificio, provocando un incendio devastante e la fusione del metallo che si era riversato all’interno, cuocendo i marmi di statue e sarcofagi e i colori degli affreschi. I soccorritori ne avevano raccolti a terra i frammenti.
Negli anni successivi era stato staccato dalle pareti quel che restava delle superfici dipinte (scoprendo contestualmente le sottostanti sinopie, dal ’76 esposte nell’apposito museo sul lato opposto della Piazza dei Miracoli) per trasferirle su tela e quindi in parte ricollocarle. Ma l’inadeguatezza dei primi interventi di emergenza aveva reso necessaria una seconda fase di restauri, a partire dal ’90. Uno dopo l’altro erano così tornati al loro posto gli affreschi di Francesco Traini, Andrea Bonaiuti, Antonio Veneziano, Spinello Aretino, Taddeo Gaddi, Francesco da Volterra, Piero di Puccio, Benozzo Gozzoli. E dopo che nel 2009 l’Opera della Primaziale Pisana ha affidato il compimento dei lavori alla direzione scientifica di Antonio Paolucci, è toccato alle opere di Buffalmacco: il Giudizio universale, l’Inferno e le Storie degli anacoreti.
Mancava il Trionfo della Morte, l’affresco che più aveva colpito Hermann Hesse nella sua visita dell’aprile 1901 (raccontata nel resoconto di viaggio Dall’Italia): verrà solennemente ricollocato il 17 giugno, festa di san Ranieri patrono della città. Nel frattempo aspetto il suo momento nel laboratorio alle porte della città dove negli ultimi due anni si è prodigata una squadra di restauratori, storici dell’arte, chimici e ingegneri (a cui si sono aggiunte di volta in volta diverse competenze esterne) coordinati da Gianluigi Colalucci, dall’80 al ’94 responsabile della «ripulitura» di Michelangelo nella Sistina, e da Carlo Giantomassi, restauratore degli affreschi di Giotto nella basilica di Assisi sfigurata dal terremoto del 1997.
Macchina teatrale
Il problema più grave era rappresentato dagli affioramenti del caseato di calcio impiegato negli Anni 50 da Leonetto Tintori per strappare e reincollare su tela la pellicola pittorica, che nel corso del tempo avevano disteso sul colore una patina giallo-grigia. Per evitare l’uso massiccio di solventi chimici che avrebbero danneggiato il dipinto, si è fatto ricorso a una metodologia rivoluzionaria, in passato impiegata prevalentemente su materiali lapidei e mai su un affresco di simili dimensioni (m 14,97 x 5,65): una tecnica di pulitura messa a punto dal microbiologo Giancarlo Ranalli, dell’Università del Molise, con l’impiego di un particolare tipo di batteri (Pseudomonas Stutzeri) addestrati a mangiare quel tipo di materiale organico. Nel giro di tre ore gli affamati microorganismi hanno risolto il problema senza intaccare il colore.
Quindi la tela è stata staccata dal supporto di eternit su cui l’aveva incollata Tintori, la superficie pittorica separata dalla vecchia tela e reintelata, e il tutto fissato su un supporto di vetroresina e alluminio da cui all’occorrenza può essere facilmente rimosso. Per prevenire la condensa, che nelle gallerie del Camposanto, aperte sul cortile interno, provoca in inverno gocciolamenti sulle pareti affrescate, si è studiato un sistema di retroriscaldamento dotato di sensori che rilevano ogni 10 minuti la situazione ambientale e in caso di necessità aumentano di 1-2 gradi la temperatura superficiale dell’affresco.
E così – reintegrato pittoricamente in alcuni dettagli, con acquerelli che non creano confusione con le parti originali («Non volevamo creare un falso», spiegano i restauratori, fedeli alla lezione di Brandi) – il Trionfo della Morte torna alla vita. Con il suo terribile monito rivolto all’uomo medievale, quel Memento mori evocato già nei banchetti dell’antica Roma – la larva convivialis di Trimalcione, un piccolo scheletro d’argento esibito davanti ai commensali – ma di segno opposto: là era un richiamo alla brevità della vita e quindi uno sprone a goderne i piaceri, qui un’esortazione a astenersene perché su tutti e tutto la Morte incombe, spalancando per i peccatori la strada della dannazione eterna, a cui soltanto si può sfuggire seguendo l’esempio di semplicità e purezza proposta dai quattro monaci eremiti raffigurati in alto a sinistra.
Tutto l’affresco è una complessa macchina teatrale articolata in scene, con i cartigli a commentare e dare voce ai personaggi. C’è il quadretto di amor cortese con i giovani uomini e donne che si beano ignari tra canti e suoni ameni, mentre su di loro svolazza una figura con falce e ali di pipistrello («O anima, perché non pensi / Che morte ti torrà quel vestimento / In che tu senti corporal dilecto?»). C’è l’elegante corteo di dame e cavalieri impegnati in una battuta di caccia che scoprono tre bare scoperchiate, con i cadaveri in fasi diverse di decomposizione. C’è la folla di lebbrosi, storpi e mendicanti disperati che invocano la fine, davanti a un carnaio di ricchi e poveri, re, regine e papi: ma la Morte volge loro le spalle, perché la sofferenza è uno strumento di salvezza e non va sfuggito, come insegnano le Storie di Giobbe affrescate nel Camposanto da Taddeo Gaddi.
Un secolo dai due volti
Il Trecento è però un secolo diviso tra la cupezza funerea e quell’amore per la vita che spira come un vento trobadorico d’Oltralpe. E Buffalmacco, il burlone amico di Boccaccio, fedele esecutore della commissione ricevuta dall’arcivescovo e concordata con i frati domenicani per demonizzare gli ideali cortesi, fa trasparire qua e là il suo vero spirito: nelle forme opulente delle animulae muliebri nude che gli angeli e i demoni si contendono volteggiando in cielo, nelle splendide vesti dei cavalieri, nelle acconciature leggiadre delle dame, negli sguardi maliziosi che si scambiano. Il trionfo della Morte è una vittoria di Pirro, all’orizzonte già si profila una nuova era.