il Fatto Quotidiano, 25 aprile 2018
Smacchiare il Gattopardo
Cinque giorni dopo, la sentenza della Corte d’Assise di Palermo sulla trattativa Stato-mafia è già scomparsa dai radar. Le solite dichiarazioni di pm, avvocati e imputati, il sollievo di Napolitano per l’assoluzione del suo amico Mancino, i prevedibili negazionismi di chi prima invoca le sentenze e quando arrivano le spaccia per opinioni. E poi loro: i politici che hanno sgovernato negli ultimi 25 anni, facendo di tutto per coprire e/o per non vedere, che ora infatti tacciono. Come se la cosa non li riguardasse. Invece riguarda tutti. Destra, centro e sinistra. Se i pm e poi i giudici di Palermo sono riusciti a ricostruire un pezzettino di verità giudiziaria sui retroscena delle stragi del 1992-’94 è innanzitutto grazie alla collaborazione degli uomini di mafia – da Brusca a Spatuzza a Ciancimino jr. – pentiti per convenienza o per rimorso, che con le loro rivelazioni hanno costretto fior di uomini dello Stato – Mori, De Donno, Martelli, Ferraro, Violante, Conso, Mancino, Napolitano – a ricordare ciò che avevano taciuto per 10 o 20 anni. E poi anche grazie a documenti sequestrati dai pm negli archivi dei servizi segreti, della polizia, dell’Arma, dei ministeri della Giustizia, dell’Interno e della Difesa. Tutti frammenti di una scatola nera tuttora incompleta perché – come ricorda Nino Di Matteo – mancano, dopo quelli di mafia, i “pentiti di Stato”. E perché nessun ministro della Giustizia, dell’Interno e della Difesa ha mai voluto indagare su quel che accadde dietro le quinte delle stragi.
Chi mandò Mori e De Donno a trattare con Riina tramite Vito Ciancimino ai tempi del governo Amato, subito dopo Capaci? Chi ricevette il papello di Riina, consegnato da Antonino Cinà a Ciancimino e da questi agli uomini del Ros perché lo girassero al governo con le richieste di leggi da modificare? Chi e perché convocò d’urgenza Borsellino al Viminale per conto del ministro Mancino appena insediato al posto di Scotti, facendogli incontrare Contrada sul quale, proprio in quelle ore, stava lanciando accuse il pentito Mutolo? Chi avvertì i mafiosi che Borsellino era stato avvisato per ordine di Martelli della trattativa del Ros e si stava mettendo di traverso? Cosa stava scoprendo il giudice da rendere così urgente la sua eliminazione e indurre Riina ad accelerare i tempi anche contro i suoi interessi (se dal 19 luglio la strage di via D’Amelio fosse stata rinviata al 6 agosto, sarebbe decaduto il decreto sul 41-bis, varato dopo Capaci e subito insabbiato dalle Camere). Perché Mori insisteva col presidente dell’Antimafia Violante per fargli incontrare Ciancimino a tu per tu?
Perché, subito dopo la cattura (o la consegna) di Riina, il covo non solo non fu perquisito, ma venne pure abbandonato dal Ros, a disposizione di Provenzano e all’insaputa di Caselli? Chi suggerì al presidente Scalfaro di rimpiazzare l’intransigente capo delle carceri Niccolò Amato con un fautore della linea morbida sul 41-bis? Cosa sapeva del passaggio dal carcere duro a quello molle il capo della Dia De Gennaro, che in agosto avvertì per iscritto Mancino e Violante che “l’eventuale revoca anche solo parziale dei decreti di 41-bis potrebbe rappresentare il primo concreto cedimento dello Stato intimidito dalla stagione delle bombe”? E perché nessuno dei destinatari colse il senso di quell’allarme né di quello lanciato un mese dopo dallo Sco sull’“obiettivo della strategia delle bombe… di giungere a una sorta di trattativa con lo Stato per la soluzione dei principali problemi che affliggono attualmente l’organizzazione: il ‘carcerario’ e il ‘pentitismo’”? Chi consigliò, dopo le stragi della primavera-estate ’93, al Guardasigilli Conso di revocare il carcere duro a 334 mafiosi detenuti per “dare un segnale” a Cosa Nostra e “fermare nuove stragi”? E chi gli aveva rivelato che il nuovo Capo dei Capi era Provenzano (da molti dato per morto) e che costui era “contrario alle stragi”? E com’è possibile che né l’Antimafia di Violante né il Viminale di Mancino né i vertici della Dia, dello Sco, della Polizia e dei servizi abbiano notato quell’esodo biblico dalle celle del 41-bis? Tutte domande che attendono risposte non dai pentiti di mafia, ma dagli uomini dello Stato. Soprattutto sul primo biennio della trattativa, quella dei governi di centrosinistra Amato e Ciampi, molto più oscuro del secondo round, quando il testimone passò dal Ros a Dell’Utri che – per la Corte d’Assise – trasmise il ricatto di Cosa Nostra all’amico premier B.. Messaggio subito recepito, visto che le stragi, improvvisamente com’erano iniziate, finirono per 25 anni.
Ora si spera che la sentenza dia coraggio alla Procura di Palermo e alla Dna per illuminare i buchi neri della trattativa. E a quelle di Caltanissetta e Firenze per dare finalmente un volto a mandanti ed esecutori delle stragi “esterni” alla mafia. Come racconta Spatuzza, nel garage dove fu imbottita di tritolo l’autobomba di via D’Amelio, c’era un uomo ben vestito che né lui né gli altri killer dei Graviano conoscevano: chi era? Subito dopo la strage, dalla borsa carbonizzata di Borsellino, una mano sapiente (non mafiosa, ma statale) asportò l’agenda rossa dove il giudice annotava gli esiti delle sue indagini. Quando il killer Santino Di Matteo iniziò a collaborare e gli fu subito sequestrato il figlio Giuseppe (poi ucciso e sciolto nell’acido), la moglie lo implorò di non nominare mai gli “infiltrati” dello Stato. Poi non la mafia, ma la polizia di Stato fabbricò un falso colpevole pentito, Enzo Scarantino, da dare in pasto ai pm per nascondere i veri colpevoli dell’eccidio. Un “governo del cambiamento” dovrà pensare anche a questo, quando nominerà il ministro dell’Interno e i vertici di polizie e servizi. Altrimenti sarà l’ennesima riedizione del Gattopardo.