Il Sole 24 Ore, 25 aprile 2018
Il volto fisico della data economy
Se i datacenter del pianeta fossero una nazione, sarebbero il quinto paese per consumo energetico al mondo. Il bit può essere impalpabile e seguire leggi diverse da quelle che regolano l’economia degli atomi, ma quando si arriva al consumo energetico anche il cloud diventa pesante. La carbon footprint dei centri di calcolo ha raggiunto quella del trasporto aereo (3% dell’energia consumata sul pianeta e 2% delle emissioni di gas serra) e continua a crescere. Il settore di conseguenza prova a reagire con responsabilità. Nelle scorse settimane Google prima e Apple dopo hanno annunciato di essere diventate al 100% “green”: i loro uffici e datacenter vengono alimentati da rinnovabili. E se questo non è direttamente possibile, pagano i green voucher per compensare l’uso di fonti non alternative. Il dato è positivo perché il consumo energetico di una ricerca su Google equivale all’energia necessaria per bollire un bicchiere d’acqua, mentre guardare un video su YouTube o la posta su Gmail supera rapidamente il necessario per cuocere una fetta di carne alla piastra.
Il settore mondiale dei centri di calcolo ha bisogno di 30 Gigawatt di energia all’anno, secondo Green House Data, e il fabbisogno aumenta sempre nonostante gli sforzi per mitigarli. La crescita è più veloce delle soluzioni messe in pista, la maggior parte delle quali oltretutto non è necessariamente positiva per la carbon footprint del settore. Prendiamo un datacenter di dimensioni medie: consuma 10 Megawatt l’anno. Poco più del 50% è usato per raffreddare i server, dato che i processori da un punto di vista termodinamico sono sistemi altamente inefficienti (trasformano la maggior parte dell’energia immessa in calore) e oltretutto richiedono temperature relativamente basse per far”correre“gli elettroni dato che a temperature più basse diminuisce la resistenza elettrica dei materiali.
Miglioramenti tecnologici nelle architetture hardware (cioè processori che “scaldano meno“) avrebbero impatti enormi. Ma non c’è solo questo. Anche la progettazione dei centri di calcolo e la scelta della loro posizione geografica (clima freddo e secco oppure umido e caldo) hanno un impatto significativo sul raffreddamento. Il settore utilizza una metrica per valutare in maniera complessiva l’impatto energetico di un datacenter: è la Power Usage Effectiveness (Pue), che però non è soddisfacente perché non comprende sempre tutte le variabili in gioco (dal raffreddamento all’illuminazione a una serie di oneri energetici accessori). Per questo è stata sviluppata una seconda metrica, Green Power Usage Effectiveness (Gpue), che non è tuttavia accettata universalmente.
Il consumo energetico deriva anche da altri fattori che non hanno a che fare solo con l’architettura hardware e la progettazione e geografia degli impianti. C’è infatti da valutare anche l’uso fatto dai server. Ad esempio, la virtualizzazione, cioè la tecnica per aumentare l’efficienza d’uso dei server trasformandoli in macchine virtuali che vengono fatte funzionare all’interno di una sola macchina fisica è la base del cloud computing e permette di estrarre il massimo valore possibile da ciascun server fisico. Il problema è che l’utilizzo del server fisico diviene costante e i consumi di raffreddamento aumentano in maniera non lineare. Il cloud aumenta insomma l’efficienza di uso dei server, ma diminuisce quella dei consumi.
Ancora, nuove tecnologie come le blockchain sono estremamente dispendiose da un punto di vista energetico perché le singole transazioni vengono replicate in tutta la rete. Oppure, le tecnologie di ottimizzazione nella gestione dei dati degli utenti e altri sistemi di distribuzione dei carichi di lavoro, resi possibili dalla virtualizzazione con i cloud e i container, aumentano in maniera esponenziale il traffico dati all’interno dei datacenter e il trasferimento di blocchi di dati fra datacenter diversi, che oggi superano di gran lunga il traffico tra server e client remoti, cioè gli utenti finali. L’orizzonte del 2030 per la riduzione dei consumi energetici prevede che i big della tecnologia siano in grado anche di separare la crescita nell’uso dei servizi da quella dei consumi. Al di là del consumo di fonti rinnovabili, il problema sono le emissioni e quindi il riscaldamento globale. Insomma, diventare verdi è solo metà della storia.