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 2018  aprile 25 Mercoledì calendario

Supercomputer di profondità. Le petrolifere hanno oggi enormi potenze di calcolo per esplorare il sottosuolo

La digitalizzazione galoppa in tutti i settori. Da un lato la trasformazione digitale delle economie e l’efficienza energetica su larga scala dovrebbero ridurre le emissioni globali, ma dall’altro lato la velocità della rivoluzione è stata una sorpresa. Il traffico internet globale dovrebbe aumentare di quasi tre volte dal 2015 al 2020, secondo l’ultimo Cisco Visual Networking Index, che prevede più di un miliardo di nuovi utenti internet, dai 3 miliardi nel 2015 a 4,1 miliardi entro il 2020, con dieci miliardi di nuovi dispositivi connessi. A questi ritmi di crescita, l’Ict è destinata a consumare il 20% di tutta l’elettricità mondiale entro il 2025, contribuendo per il 5,5% alle emissioni mondiali di anidride carbonica, più dei trasporti marittimi e aerei, secondo uno studio recente di Anders Andrae. L’ultimo rapporto del Berkeley Lab stima per i data center americani un fabbisogno di 100 terawattora all’anno entro il 2020, equivalente ai consumi elettrici complessivi dell’Olanda.
I grandi di internet – Google, Apple, Facebook e Amazon – sono i principali responsabili di questo tsunami di dati che si sta abbattendo sui consumi mondiali di energia, ma anche altri settori, come quello petrolifero, contribuiscono al problema. Le nuove tecniche di esplorazione geofisica virtuale consentono di sfruttare la potenza di calcolo dei grandi computer per capire con maggiore precisione la conformazione del sottosuolo, a migliaia di metri di profondità. Sempre più spesso basta trovare l’algoritmo giusto per scoprire un giacimento dove le trivelle non l’avevano trovato. I calcolatori sono costosi, ma possono ridurre il processo di esplorazione petrolifera di mesi e far risparmiare decine di milioni di dollari, evitando di trivellare pozzi nei punti sbagliati. Per sfruttare al massimo il loro potenziale, le major petrolifere stanno cercando di competere con i giganti della Silicon Valley nell’aumento della loro potenza di calcolo e ora possiedono alcuni dei più potenti computer commerciali del pianeta, che superano quelli di Facebook e Google.
La francese Total ha recentemente aggiornato il supercomputer Pangea, quasi triplicando la sua potenza di calcolo a 6,7 petaflop. La Bp è nel bel mezzo di un investimento quinquennale da 100 milioni di dollari nel suo supercomputer di Houston: ha costruito un enorme stanzone da 1.400 metri quadri in un edificio a tre piani a prova di alluvione per ospitare il titano, che attualmente occupa metà dello spazio e arriva a 9 petaflop. Ma il supercomputer commerciale più potente del mondo è l’Hpc4 di Eni, che arriva a 18,6 petaflop ed è alloggiato nel nuovo Green Data Center di Ferrera Erbognone, dalle dimensioni di un campo da calcio. L’infrastruttura di calcolo di Eni funziona sulla base di un unico ecosistema di algoritmi estremamente complesso, creato, sviluppato e di proprietà di Eni. Altre major, come Exxon, preferiscono invece esternalizzare le proprie necessità di potenza di calcolo, ma tutte le compagnie concordano sull’importanza della digitalizzazione dell’esplorazione petrolifera.
Eni attribuisce proprio alla digitalizzazione i suoi risultati migliori, come per esempio la storica scoperta egiziana di Zohr, la più grande riserva di gas del Mediterraneo. L’imaging sismico è una tecnica di telerilevamento molto simile all’ecografia, solo che l’oggetto dell’investigazione è tutto ciò che si trova nel sottosuolo. Dalla superficie si iniettano onde acustiche che si propagano nel sottosuolo e vengono parzialmente riflesse verso l’alto dagli strati di roccia: la registrazione delle vibrazioni riflesse fornisce le informazioni necessarie per ricostruire un’immagine tridimensionale di ciò che si trova in profondità. Gli algoritmi utilizzati per ottenere queste immagini si basano sul principio che le riflessioni registrate in superficie devono essere matematicamente riportate nei punti in profondità dove sono state riflesse verso l’alto.
La “corsa agli armamenti” digitali, però, sta mettendo in allarme gli ambientalisti e tutti coloro che lavorano per la riduzione delle emissioni di CO2, nel tentativo di centrare gli obiettivi dell’accordo di Parigi sul clima. In questa chiave, i nuovi data center vengono costruiti seguendo criteri di efficienza e di utilizzo delle fonti rinnovabili. Apple ha stanziato 1,7 miliardi di dollari per costruire due data center, uno in Irlanda e l’altro in Danimarca, che verranno alimentati al 100% da fonti verdi, e ha appena annunciato di aver raggiunto l’obiettivo di consumare solo energia rinnovabile. Google si difende dagli attacchi di Greenpeace con la stessa arma: man mano che la cloud si gonfia, copre il suo fabbisogno ormai al 100% con energia da fonti rinnovabili. Il data center Luleå di Facebook in Svezia, situato nei pressi del Circolo polare artico, utilizza l’aria esterna per il raffreddamento anziché l’aria condizionata e funziona con energia idroelettica generata sul vicino fiume Lule.
Il Green Data Center dell’Eni, che contiene anche il suo vecchio supercomputer e quindi arriva a una potenza di calcolo di 22,4 petaflop complessivi, non può vantare condizioni così favorevoli, ma punta quantomeno all’autosufficienza energetica, per abbattere le emissioni e soprattutto i costi operativi. L’infrastruttura, che ha un sistema di raffreddamento ad aria, viene alimentata dalla centrale termoelettrica di Enipower, situata accanto al centro, e dal parco fotovoltaico limitrofo di circa 1 megawatt, in grado di fornire fino al 50% della potenza necessaria ai supercalcolatori installati.
@elencomelli