Gazzetta dello Sport, 26 aprile 2018
Dieci milioni in vacanza per il ponte 25 aprile - 1° maggio
Oggi parleremo solo apparentemente di vacanze. Ci occuperemo, in realtà, di economia e società.
• Che vacanze?
Ieri, 25 aprile, era mercoledì. Il week-end è vicino. Poi martedì, 1° maggio, altra vacanza. Il lavoratore italiano, piuttosto attento a queste cose, ha tutte le volte che ha potuto messo in programma una partenza il martedì sera o il mercoledì mattina (ieri) e un rientro calibrato alla sera del martedì successivo. Se non alla domenica successiva: pigliandosi sei giorni di ferie, si sta via per poco meno di due settimane.
• E l’assenteismo?
Già, per gli assenteisti incastri come quello di questa settimana sono una manna. Corrono un solo rischio: di litigare tra di loro, perché non possono tutti partire e ritornare lo stesso giorno.
• No? Una recente indagine del Sole 24 Ore sui comuni italiani che sono anche capoluoghi di provincia ha messo insieme i dati di 102 amministrazioni su 111 perché ai telefoni delle altre nove, per quanto si chiamasse, non rispondeva nessuno.
Beh, a Locri hanno risposto, credo, perché è stato possibile appurare che questo è il comune col tasso d’assenteismo più alto: 99,4 giorni all’anno, e senza bisogno, a quanto pare, di troppi ponti come quello che stiamo vivendo. Il comune di Locri è il più assenteista d’Italia, mentre quello dove si lavora di più è Biassono in provincia di Monza, dove si saltano 14 giorni appena ogni anno. Cioè, direi, questi di Biassono non si fanno neanche le vacanze previste dai contratti, cosa che mi fa venire in mente la figura del compianto Vincenzo Maranghi, l’erede di Enrico Cuccia, amministratore delegato di Mediobanca, il quale, al momento della pensione, incassò per ferie arretrate un milione e seicentomila euro: in quarant’anni s’era assentato dal posto di lavoro solo per una settimana. La domanda sarebbe questa: se ci fossero meno ponti e tutti lavorassimo di più, il nostro debito pubblico scenderebbe, la nostra competitività nel mondo crescerebbe?
• Domande retoriche. Quanta gente è partita per questo 25 aprile-1° maggio?
Gira una statistica di Telefono Blu, un’associazione dei consumatori, non so quanto affidabile: parla dello spostamento di dieci milioni di italiani, i quali, sedotti anche dalle belle giornate (almeno finora) si sono spostati da casa. Sono partiti soprattutto i cittadini di Roma, Milano, Napoli, Torino e Bologna. Si prevedono spese per due miliardi e mezzo di euro. L’esodo da Roma è di 350 mila persone, dall’area metropolitana di Milano 300mila, da Napoli 130mila, da Torino 120mila, da Bologna 110mila, e ancora da Firenze 80mila, da Palermo 60mila, da Bari 40mila, da Catania 40mila, da Cagliari 30mila, da Verona 25mila, da Venezia 30mila. Roma, Firenze, Venezia sono anche città dove i turisti arrivano sicché è possibile che i centri urbani si siano svuotati solo in apparenza e che le strade continuino a essere invase da tizi in calzoncini corti e occhiali scuri e magari sandali e pedalini. Gli statistici hanno anche calcolato i sotto-periodi: le minivacanze 22-25 aprile hanno riguardato 5 milioni di persone, ciascuna delle quali ha speso 300 euro (totale: un miliardo e mezzo). L’86% è rimasto in Italia: mare ed isole 40% montagna 17% città d’arte 14% laghi 10%. Il flusso dall’estero verso di noi è ancora forte, dato che la paura del terrorismo tiene lontani i vacanzieri dalle mète che ci fanno concorrenza. Un dato strano è quello relativo alla seconda casa: la raggiunge appena il 18% di quelli che partono, mentre il 32% va in albergo (il 12% in campeggio, il 14% presso parenti o amici, il 4% in agriturismo, il 5% in residence).
• Perché questo dato sarebbe strano?
La maggior parte degli italiani non hanno una seconda casa? Qualche tempo fa si fecero foto aeree delle coste e si scoprirono svariati chilometri di case mai denunciate, di case - per dir così - clandestine. Perché - e qui entra in ballo l’economia - la vera ricchezza degli italiani è in definitiva sconosciuta. Se ne sa qualcosa per macro cifre, in base ai depositi in banca e ai patrimoni stimati, una massa, tra tutto quanto, di ottomila miliardi. Numeri che farebbero sembrare assurdi i piagnistei continui, i risarcimenti sociali e i redditi di cittadinanza. Non sto dicendo che i poveri non esistono, naturalmente, dico solo della nostra propensione a ragionare per schemi e a scegliere in genere, nelle analisi frettolose che siamo costretti a fare sui giornali, la via più breve e meno pericolosa. A parlar male del governo non si sbaglia mai, salvo poi a farsi un mucchio di domande quando si scopre che una quantità insospettata di concittadini spende e spane e che la crisi non sembra così lacerante. Ma senta un po’: Sebastiano Grasso, sul Corriere, ha raccontato l’altro giorno che nel 1981 il giornale gli chiese di mettere a confronto, con due interviste parallele, Prezzolini (99 anni) e Bacchelli (90). Tema, attualissimo: «pessimismo e speranze sul futuro dell’Italia». Prezzolini disse: «L’Italia, oggi, va a rotoli, si sta suicidando, come sempre del resto, per molte cause piccine, pidocchiose. Piccole invidie, minimi interessi, sabbiose aspirazioni, ventose ambizioni, minuscoli frutti, delitti spesso da osteria, congiure da palcoscenico, imbrogli da seminario, scene da circo». Bacchelli replicò: «Non rispondo a Prezzolini perché dice solo sciocchezze. Non voglio neppure sentirne parlare. L’ultima volta che lo vidi, nel ’14, assieme a Slataper, gli volevo rompere la testa. Come si fa a fare l’analisi di un popolo su due piedi? Furbizia, rivolte, imbrogli? Ci sono anche negli altri popoli. Gli italiani li ammettono e, spesso, stupidamente, se ne vantano anche». Vale anche per oggi, naturalmente, di fronte ai dieci milioni di piagnoni che sono corsi a mettersi in mutande per prendere il sole. Decida lei, tra i grandi vecchi di allora, chi aveva, cioè chi ha, più ragione.