la Repubblica, 25 aprile 2018
Sono il Lord scrittore che visse in una cella. Intervista a Jeffrey Archer
La vita è un romanzo, nel caso di Jeffrey Archer, suona riduttivo: ce ne vogliono almeno sette, di libri, per raccontare gli alti e bassi della sua rocambolesca esistenza. Nato povero in una cittadina della costa dell’Inghilterra, entrato in una prestigiosa scuola privata grazie a una borsa di studio, diventato ricco e deputato ad appena 29 anni, caduto in disgrazia prima per bancarotta, poi per una relazione con una prostituta, condannato a quattro anni di prigione, riabilitato come autore di bestseller che hanno venduto decine di milioni di copie in tutto il mondo, nominato baronetto dalla regina Elisabetta: una biografia degna di un personaggio di Dickens. «Non per nulla è il mio scrittore preferito!», risponde al telefono da Maiorca, dove si ritira a scrivere i libri a cui deve la sua (seconda) fama. In Italia esce adesso Solo il tempo lo dirà (HarperCollins), primo dei sette volumi su Harry Clifton, il suo alter ego letterario.
Come presenterebbe la saga dei Clifton, lord Archer?
«Ho cominciato a scriverla sette anni fa, a settant’anni e si svolge nell’arco di sette romanzi. L’avevo pensata come una sfida con me stesso, giunto a un’età in cui puoi fare bilanci. Non avrei immaginato di divertirmi tanto a completarla. E mi sembra si divertano anche i lettori».
Sette è il suo numero fortunato?
«No. All’inizio pensavo di scriverne quattro. Ma arrivato in fondo mi sono reso conto che il protagonista aveva soltanto 40 anni e c’era ancora parecchio da raccontare.
Così ne ho scritti altri tre».
Un protagonista nato in una cittadina costiera inglese, che ha un padre misterioso e finisce in una scuola d’élite grazie a una borsa di studio: sembra la sua biografia.
«C’è parecchio di me in Harry, in effetti, e di mia moglie Mary in Emma, la protagonista femminile.
Abbiamo avuto una vita romanzesca. Forse era inevitabile che finissi per scriverla».
Una differenza tra romanzo e realtà è che Harry è nato nel 1920, lei nel 1940.
«Volevo che avesse vent’anni quando scoppia la Seconda guerra mondiale. Evento che tuttavia anch’io ricordo, sebbene fossi bambino, e che mi ha segnato attraverso le esperienze dei miei genitori».
Trattandosi di una vicenda in parte autobiografica, come la giudica ora?
«Tutti, se non siamo stupidi, possiamo imparare dagli errori.
Sono rare le persone che non ne hanno commessi. L’unico sistema per non fare errori è non fare niente. Dei miei ho avuto modo di pentirmi, ma nel complesso ho più gratitudine che rammarico verso la vita. Sono stato un uomo privilegiato. Ho perso qualcosa per strada ma ho avuto molto».
Da dove viene il suo talento di scrittore?
«Non sono uno scrittore, sono un narratore. È diverso. Gli scrittori hanno generalmente una prosa magnifica, ma relativamente pochi lettori. I narratori raccontano storie: non apprezzati dai critici, ma amati dai lettori. Ci sono naturalmente eccezioni, scrittori di qualità che vendono milioni di copie. Come Elena Ferrante, per citarne una recente, ho divorato la sua tetralogia».
E allora da dove viene il talento di raccontare storie?
«La buona scrittura, di solito, viene da buoni studi. Il talento del narratore è un dono innato, inspiegabile».
Quando si è accorto di averlo?
«Perso il seggio di parlamentare, anche se poi evitai la bancarotta, non avevo più un lavoro. Pensai di raccontare quello che mi era capitato. E con Caino e Abele, il mio secondo libro, ho venduto un milione di copie in un anno. Ho capito che era la mia strada».
È vero che scrive sempre la prima bozza a Maiorca?
«Scrivo a Maiorca le prime 17 bozze, non soltanto la prima!».
Un bel po’ di riscritture. Com’è il suo metodo?
«Mi alzo alle 6 del mattino e scrivo fino alle 8. Poi una pausa.
Ricomincio a scrivere dalle 10 alle 12. Pausa. Di nuovo dalle 14 alle 16 e dalle 18 alle 20. Di questo passo, in 50 giorni ho una prima bozza.
Allora mi prendo tre settimane di vacanza e la lascio sedimentare.
Poi scrivo la seconda bozza. Altre tre settimane di riposo e scrivo la terza. Ma dopo le prime due, quando cambio il 30-40 per cento del materiale, le successive sono solo di piccolo editing, una parola qui, una lì».
Possiamo fare un passo indietro? Come sono state le sue prigioni?
«Ho scritto tre libri per raccontarlo, li ho chiamati Inferno, Purgatorio e aParadiso. La cosa straordinaria è che continuano a vendere, dopo tanti anni. La gente è curiosa di sapere come si vive in carcere».
E in Parlamento come si stava? Rimpiange la politica?
«Continuo a occuparmene, anche se in modo meno assiduo. Vado alla camera dei Lord. Leggo i giornali. Seguo la politica del mio paese e quella internazionale. A cominciare da quella dell’Italia, di gran lunga il mio paese preferito.
Più per l’arte che per la politica, però».
Come finirà con la Brexit?
«Spero che finisca con un accordo che danneggi il meno possibile sia la Gran Bretagna che la Ue. Ma nel referendum ho votato per rimanere: sono un europeista convinto».