Corriere della Sera, 24 aprile 2018
Cosa resta di Second Life
Sono a una festa. Su una terrazza con vista, sul mare. Osservo gli altri invitati. Ballano. No, io no. Non so come si fa. E, a dire il vero, mi sento un po’ a disagio con questo vestitino nero che mi sono ritrovata addosso per caso. È quello del mio avatar: sono dentro Second Life. Sì, Second Life esiste ancora. Un anno e mezzo fa ha fatto anche capolino in Eccomi di Jonathan Safran Foer. Nel libro, il protagonista Jacob uccide per sbaglio l’avatar del figlio Sam in Other Life, un mondo virtuale in cui il ragazzino prova ad affrontare i suoi limiti. Inevitabile pensare alla piattaforma di Linden Lab che si candidava a diventare sinonimo di Internet. Quindici anni dopo la sua nascita, risalente al 2003, sappiamo che non è andata così: qualcosa di molto più semplice e, allo stesso tempo, molto più impegnativo in termini di implicazioni sociali, in quanto più aperto e radicato nella vita reale, ha preso il sopravvento. I social network.
Nel 2007, Second Life toccava il milione e centomila utenti. Ospitava concerti degli U2, futuristici e costosi progetti di aziende e comizi di politici. E introduceva una moneta online, il Linden Dollar. Il palloncino si è poi sgonfiato nel giro di un paio d’anni, mentre Facebook e Twitter promettevano di diventare ponti online e offline tra le persone, senza bisogno di maschere.
Cosa è rimasto del sogno del fisico Philip Rosedale di veder fiorire una realtà parallela in cui estensioni tridimensionali dei nostri bisogni interagissero, scoprissero e si scoprissero? «Poi ti faccio vedere, adesso scusa ma devo tornare alla Rl». Rl sta per real life. La vita vera, fuori dal metaverso. Eliana, alias Oema Resident, 43 anni, parla così, come se fossimo ancora nel 2007. Ci stiamo scrivendo su Facebook Messenger perché – alla faccia delle polemiche di queste settimane sull’invasività del social nel resto della Rete – l’ho contattata dopo aver trovato un commento con il suo profilo blu sul sito di Second Life.
Quando si riconnette, mi porta nella sua Santa Maria dell’Isola di Tropea. «Qui mi rilasso quando, dopo una giornata di intenso lavoro (fa l’avvocata, ndr), fingo di essere in spiaggia», scrive nella rudimentale chat interna della piattaforma. Prosegue: «Chi è rimasto (Second Life dichiara più di mezzo milione di attivi, ndr) dà un contributo importantissimo. Artisti, designer e architetti usano software come Blender o Cinema 4d per costruire e importare oggetti che rendano l’ambiente più bello». Oema sa di cosa parla, perché qui non è un’avvocata, ma una sorta di agente di artisti. «Vado agli eventi e cerco di valorizzare i lavori più interessanti sul mio blog o su YouTube». Second Life, quindi, che esce dal suo perimetro e si aggrappa al resto della Rete per sopravvivere.
Perché dovrei spendere soldi per un’opera virtuale lo chiedo a Mistero, Claudio, autotrasportatore nella vita reale e scultore in quella virtuale. «La compreresti per arredare casa tua? Ecco, qui c’è la tua seconda casa», risponde. I suoi lavori costano una media di 8 dollari l’uno (Oema mi ha detto che c’è chi guadagna fino a 3 mila euro al mese). Mistero spende, con un’altra persona, 130 dollari al mese per «le tasse» della sua isola. La visito, e incontro qualcuno. In molte altre zone, come le riproduzioni dell’Università di Stanford o di Piazza del Duomo di Milano vago invece per vie deserte.
«C’è stato un calo di interesse, senza dubbio. All’inizio ne parlavano tutti. Ma Second Life non è Facebook: è una macchina più complessa. Bisogna saper usare bene il computer, innanzitutto». E aver (ancora) voglia, e bisogno, di evadere.