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 2018  aprile 23 Lunedì calendario

Amsterdam, nel cuore del diamante perfetto, qui si accende il brillante con 121 facce

Una schermatura di vetro curvato protegge il lungo bancone degli operai che lavorano i diamanti, lucidatori e tagliatori. Sul banco, infilati alla rinfusa in grandi bicchieri, spuntano consumati puntali con manici di legno, pinze, strumenti in ferro dalle forme allungate, appiattite e infine concave, capaci di imprigionare la gemma secondo forma e grandezza. Uno sguardo veloce o poco attento potrebbe confondere quella che è una fabbrica di diamanti con il grande studio di un riparatore di piccoli oggetti, un orologiaio, un fabbro, mestieri in via d’estinzione. Spazzati via da una produzione di massa dove le cose, dalla lavatrice alla tv, hanno una vita a termine e non si riparano più. Ma tecnologia e innovazione sono rimaste fuori dalla porta nel settore dei diamanti da gioielleria. E il lavoro degli operai, associati in un potente sindacato già da fine Ottocento, è lo stesso di sempre. Nemmeno gli strumenti hanno esaurito la loro funzione. La tradizione si ripete. Sopra i tavoli un lampadario proietta la luce su un disco di ferro che gira velocemente e dove è spalmata una miscela di olio di oliva e polvere di diamante.
Il motivo? È il materiale naturale più duro al mondo, dunque solo un diamante può tagliarne un altro e solo l’olio permette di trattenere la polvere per poi recuperarla. Il disco è ancorato al tavolo ed è lì che i tecnici delle pietre poggiano, quasi fosse la puntina di un vecchio giradischi un braccio meccanico alla fine del quale è incastonata la pietra. La mano dell’operaio passa e ripassa il diamante sul disco, poi la alza, prende uno speciale monocolo e la osserva per assicurarsi che tutto proceda a regola d’arte. Un’operazione affatto semplice. Ci vuole occhio, mano ferma e gesti controllati. Siamo in via Uilenbutgestraat, qualche centinaio di metri da Piazza Dam, cuore di Amsterdam, nella sede della Gassan holding, la più antica manifattura d’Europa, dove lavorano i 400 operai specializzati. Poco è mutato nell’edificio di vecchi mattoni rossi con grandi vetrate a cupola che ospita la fabbrica dal 1879, oggi diventata la più grande diamond factory in città. Il retro dell’imponente palazzo si affaccia su un canale. Poteva rimanere un raro esempio di archeologia industriale se la famiglia Gassan non l’avesse rilevata, restaurata, rimessa all’opera e rilanciata nel 1989. Oggi i brillanti che escono da quelle mura hanno la certificazione degli Istituti europeo e americano di gemmologia. Arrivano grezzi dalla De Beers, monopolista delle miniere “garantite” in Africa, dove non scorre sangue e non si impiegano minori. Una garanzia anche di qualità, che però, è meglio dirlo chiaramente, non significa garanzia di investimento. Alla Gassan, che ha negozi in 17 tra i maggiori aeroporti mondiali e nelle grandi capitali te lo dicono chiaramente. «Non ricompriamo i brillanti venduti e le rare volte che accade il prezzo viene dimezzato». Nella fabbrica Gassan si scolpiscono brillanti, alta gioielleria, si esporta all’estero, si sono stretti rapporti con grandi maison, Rolex, Omega, Cartier, Breguet, Chopard, per citarne alcune. I negozi sono il fiore all’occhiello. Ma è nella fabbrica che si respira la magia che accompagna la lavorazione delle pietre. Qui l’industria 4.0 e le nuove tecnologie non trovano posto. Trasformare un diamante grezzo in brillante è un processo che richiede una tecnica immutata nei secoli. Tre le fasi della lavorazione, il primo taglio, la rifinitura e la lucidatura. A occhio nudo la pietra somiglia a una perla e ha la forma di un sassolino irregolare. Solo “aprendolo” viene fuori il diamante, che va tagliato assecondandone la forma. Poi la pietra va limata e lucidata. Operazioni che si ripetono uguali nei secoli perché il valore di un brillante si basa su alcuni criteri cardine: taglio, colore, purezza e caratura. E il taglio è una delle prime cose che la Gassan ha rivoluzionato. Dopo otto anni di ricerca, nel 2015 ha tirato fuori dai suoi laboratori un brillante che invece delle tradizionali 56 sfaccettature ne ha 121. Da allora gli affari sono cresciuti e le esportazioni hanno preso il volo. Un tempo per diventare tagliatori bastava frequentare una scuola tecnica di Amsterdam, che ha però chiuso da tempo. È la stessa Gassan oggi a formare i suoi operai e negli anni tanti emigrati italiani sono passati di lì. A crearla dal nulla in un quartiere malfamato all’epoca, furono i fratelli Boas, Israel, Marcus e Hartog, figli di un calzolaio ebreo. Fu inaugurata il 29 giugno 1879, come riportano gli archivi cittadini, che parlano di «una fabbrica di diamanti a vapore con 357 mole metalliche utilizzate per la lavorazione dei diamanti». «La più grande del genere in tutta Europa», la definì la Camera di commercio. Erano gli anni del “Cape Period”, il periodo d’oro dell’industria dei diamanti ad Amsterdam. I tre fratelli si arricchirono in pochi anni, si scontrarono con i sindacati fino alla crisi degli anni Trenta. La Grande depressione non la lasciò indenne la fabbrica e l’arrivo della guerra fece il resto. I nazisti occuparono l’edificio e tentarono invano di riprendere la produzione. La famiglia Boas in parte fuggì negli Stati Uniti, in parte morì nei campi di concentramento. Per decenni l’edificio fu oggetto degli appetiti degli speculatori edilizi, ma resistette. Nell’estate del 1989 le ultime azioni in mano alle nipoti Boas ormai negli Usa, vennero acquistate dalla famiglia Gassan, che commercializzava diamanti fin dal 1967. E la vecchia fabbrica ripartì. Oggi chiunque può visitarla e acquistare a prezzi di fabbrica o sul sito online. Gli italiani in genere comprano un orologio, con il cinturino in pelle e un diamantino incastonato in alto. Per portarselo a casa basta una banconota da 100 euro.