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 2018  aprile 23 Lunedì calendario

Foodora & Co., la grande crisi del sindacato millennials e autonomi, il lavoro senza diritti

Lasciati a se stessi, e solo negli ultimi tempi organizzati in associazioni. I sindacati non riescono a difenderli, neppure a rintracciarli: sono le migliaia di lavoratori italiani della “gig economy”, l’economia dei lavoretti. Soli, ciascuno davanti al proprio smartphone, dove sono le app e gli algoritmi delle piattaforme digitali a diventare i loro datori di lavoro. Eppure, tutto senbra svolgersi senza rapporti di dipendenza. “Scegli tu quando lavorare”, è il messaggio che appare sul sito di Deliveroo.it., seguito dal commento di un fattorino. Il commento, vero o presunto che sia, recita: “Fare il rider mi permette di stare all’aria aperta. Quando pedalo i problemi della mia vita spariscono”. Al di là di questi entusiasmi un po’ fuori luogo, è vero che alcuni dei fattorini che ogni giorno connettono utenti e fornitori in tutta Italia, non vogliono essere considerati dipendenti e accettano di buon grado la qualifica di “collaboratori autonomi occasionali” con il massimo di flessibilità.
Sono soprattutto i giovani che si pagano gli studi. E tuttavia sta crescendo il numero di adulti che lo fanno come lavoro principale. «Sono una minoranza, dice Deliveroo, meno del 20%, in media i nostri fattorini lavorano non più di 12 ore a settimana». È vero però che da qualche tempo i rider non sono più solo studenti: già nel 2016 non lo era la metà di loro, secondo un’indagine commissionata dalla stessa multinazionale. L’anno dopo, un sondaggio della Uil, esteso però a tutti i lavoratori delle piattaforme (compresi quelli che operano da casa con il computer) rivelava che il 45% aveva più di 35 anni. Insomma, si infittisce la platea di quanti, dipendendo economicamente da quelle piattaforme, vorrebbero essere riconosciuti appunto come dipendenti, con tutte le tutele necessarie: previdenza, infortuni, ma-lattia, ferie, indennità maltempo, salario minimo, rimborsi. E di fronte al muro di gomma opposto dalle multinazionali delle piattaforme (da Deliveroo a Foodora, da Uber a Glovo a Just Eat), si moltiplicano le proteste di fattorini e autisti: a San Francisco come a Londra, a Torino come a Bologna. La prima assemblea Proprio Bologna, una settimana fa, ha ospitato la prima assemblea nazionale dei rider. Riders Union, una delle loro prime associazioni, ha firmato insieme a Comune e sindacati la “Carta dei diritti fondamentali del lavoro digitale nel contesto urbano”. E saranno proprio i ciclofattorini a guidare i cortei del primo maggio a Milano e Torino. Di fronte a questa mobilitazione, le piattaforme rispondono sempre nello stesso modo: i rider sono autonomi. Tesi ora avvalorata dalla prima sentenza italiana sulla gig economy: il tribunale del lavoro di Torino ha infatti respinto il ricorso di sei fattorini di Foodora che si erano opposti al loro allontanamento avvenuto dopo gli scioperi del 2016 e avevano chiesto che venisse riconosciuta la qualifica di subordinati. Niente da fare. Eppure, rispondono gli avvocati, i sei rider (come del resto tutti i loro colleghi) erano supercontrollati negli spostamenti attraverso il gps del cellulare, tanto da rendere possibile la creazione di una classifica delle migliori e peggiori performance. Ma se questo è vero, perché la legge italiana non li considera subordinati? Le incongruenze della legge «I ciclofattorini di Foodora– spiega Pietro Ichino, giuslavorista ed ex senatore Pd – hanno la libertà di rispondere o meno alla richiesta di consegna, e quindi sul piano giuridico non scatta l’assoggettamento all’obbligo di obbedienza che prefigura il rapporto subordinato». Certo, risponde un fattorino che vuole mantenere l’anonimato, «sulla carta è così, ma sapendo che in base alla nostra indisponibilità l’azienda ci leva punti in classifica e al terzo rifiuto ci sbatte fuori senza dover neppure giustificarsi, voglio vedere chi di noi utilizza nei fatti questi margini di libertà». La lacuna del Jobs Act Insomma, siamo di fronte a lavoratori sostanzialmente dipendenti ma giuridicamente autonomi. Lacuna del Jobs Act: la riforma del lavoro, infatti, è venuta in soccorso dei collaboratori che lavorano con vincolo di orario dentro il perimetro fisico dell’azienda (come i magazzinieri di Amazon), costringendo le imprese a trasformarli in dipendenti, sia pure a termine. In questo modo, però, ha lasciato scoperti i rider, che non lavorando in luoghi con tempi precisi, non possono essere considerati subordinati. Come difenderli allora? Tanto il governo quanto i sindacati hanno tardato ad accorgersi del fenomeno, che è in continua in crescita anche se coinvolge ancora a una piccola porzione dei lavoratori italiani. Si parla di qualche migliaio di persone, che potrebbero salire a 90 mila (lo 0,4% degli occupati) se consideriamo tutti i freelance delle piattaforme digitali. I quali non sono solo fattorini e autisti, ma anche quanti lavorano da casa con il proprio pc: ricercatori, grafici, traduttori, moderatori di forum. Da noi, dunque, la gig economy è ancora ai suoi primi passi. ma se guardiamo a quel che succede in America, dove solo in California ci sono più di un milione di platform worker, non possiamo che aspettarci un’impennata anche da noi. Già oggi, Deliveroo riceve ogni settimana 1.100 richieste di lavoro. Difficile intercettare e difendere i rider. La disintermediazione dei rapporti di lavoro operata dalle piattaforme ha creato una marea di contatti individuali. Difficile tutelarli anche perché non sono tutti uguali e molti preferiscono la massima flessibilità. Questo è uno dei motivi per cui sarebbe fuorviante criminalizzare l’intera economia dei lavoretti, e passarvi sopra un colpo di spugna. I vantaggi Evidenti i miglioramenti per gli utenti, in termini di minori tempi e costi. Ma anche per una parte degli stessi lavoratori i vantaggi possono essere notevoli, a cominciare dalla gestione flessibile degli orari. Vantaggi che i siti delle piattaforme tendono ovviamente a enfatizzare, nascondendo anche semanticamente la durezza del rapporto di lavoro. Non si trova mai scritto “turni e orario” ma “disponibilità”, la timbratura del cartellino diventa “login”, e al posto di “licenziamento” si usa l’espressione “interruzione di prestazione”. Ma torniamo al problema centrale: come tutelare questi lavoratori? Due sono le strade possibili. La prima è quella di pretendere che il legislatore consideri tutti i gig worker dei dipendenti, magari introducendo come criterio quello della monocommittenza. Ma così verrebbero meno i vantaggi della flessibilità. A meno che non si preveda una forma di lavoro subordinato sufficientemente flessibile come quello intermittente, ma senza i limiti attuali. La seconda strada è quella di non aspettare che governi o giudici considerino dipendenti i platform worker, e di avviare subito una contrattazione collettiva per assicurare loro oltre a un compenso minimo anche le tutele che oggi mancano. Ad aiutare questo percorso potrebbero intervenire le umbrella company, cooperative mutualistiche come Smart che si frappongono tra i lavoratori e le aziende, offrendo ai primi le coperture essenziali grazie a un accordo con le aziende. In alternativa (come dice una proposta di legge presentata da Ichino) si potrebbe imporre alle imprese di accedere alla piattaforma dell’Inps per il lavoro occasionale (ex voucher), attraverso la quale garantire salario minimo, assicurazioni pensionistica e anti-infortunistica. «Già – commentaDonato Nubile, presidente di Smart Italia – il progetto è giusto, ma se l’azienda mi assicura solo pochi spiccioli l’ora, come faccio io a pagare i lavoratori dando loro pure le coperture assicurative necessarie? In Belgio, Deliveroo ha stracciato l’accordo che aveva fatto con noi, non appena ha ritenuto di poter utilizzare una legge che dichiarava autonomi i lavoratori delle piattaforme. I quali poi, in due casi, hanno ottenuto il riconoscimento dello stato di dipendenza». Ma è ovvio che non ci si può affidare solo alle sentenze. La contrattazione E qui entra il gioco la contrattazione. «Che aspettano i sindacati – si chiede Ichino – a negoziazione con le aziende, a cercare di strappare paghe più dignitose e tutele, per esempio attraverso l’obbligo di accesso alla piattaforma Inps per il lavoro occasionale? Tra l’altro, la domanda degli utenti è sufficientemente rigida da consentire alle aziende di elevare i compensi di due o tre euro». Compensi che oggi difficilmente superano i 500 euro al mese. Quanto alle tutele, Foodora e Deliveroo sostengono di prevedere assicurazioni sugli infortuni e sui danni a terzi. Ma non basta, ed è soprattutto su questo terreno che si chiede ai sindacati di intervenire. «Stiamo già difendendo i platform worker – dice Franco Martini, segretario confederale Cgil con delega alla contrattazione – Certo, ci sono ostacoli obiettivi: il rapporto inesistente con le aziende, la difficoltà di identificare contrattualmente il perimetro delle prestazioni. Ma il contatto con le associazioni dei ciclofattorini sta andando avanti. Pensiamo che si debba difenderli nell’ambito del contratto collettivo della logistica». Il quale, però, come dice Tiziano Treu, nell’intervista a fianco, coinvolge i soli dipendenti. «Beh, non dobbiamo credere che sia impossibile il riconoscimento di questi lavoratori come dipendenti – risponde Valerio De Stefano, docente di diritto del lavoro all’università di Leuven in Belgio – Dare per scontato che sono e resteranno per sempre autonomi, è profondamente sbagliato. Anche perché non lo sono affatto».