La Stampa, 22 aprile 2018
Il Barone Rosso alle radici dei top gun
Il Barone Rossoalle radici dei top gunLa mattina del 21 aprile del 1918, sul cielo di Morlancourt, vicino Vaux sur Somme, c’erano raffiche fortissime quando il Barone Rosso si alza in volo per l’ultima volta con il suo Fokker triplano. A venticinque anni Manfred von Richthofen ha collezionato 80 vittorie, abbattendo altrettanti aerei nemici. Più che un pilota è un mito vivente, una specie di angelo della morte, la bandiera di una nazione che crede ancora nella vittoria.
In quei giorni, con l’offensiva sul fronte occidentale, i tedeschi rischiano il tutto per tutto. L’industria bellica alleata lavora a pieno regime, e il tempo non gioca certo in favore del Reich. Manfred von Richthofen ha fretta anche lui. Ed è già in coda al Sopwith Camel del canadese Wop May, quando viene attaccato a sua volta dal capitano Roy Brown. Manfred lo semina, riprende la caccia; ma nella cabrata perde quota, e forse l’orientamento, esponendosi fatalmente al fuoco da terra.
Gli ultimi istanti
Gli ultimi istanti sono pieni di enigmi irrisolti. Non è chiaro se il colpo mortale sia partito dalla mitragliatrice del capitano Brown o dal fucile di un fante australiano appostato a terra; né se Manfred fosse finito nella parte sbagliata di cielo per colpa del vento, per un errore, o a causa del mal di testa che non gli dava mai tregua; e non si sa neanche se fosse già morto quando il Fokker concluse a terra il suo volo, restando miracolosamente intatto, o se morì sussurrando «Kaputt» mentre i nemici lo tiravano fuori dall’abitacolo.
Capire chi era da vivo è più complicato che far luce sulle circostanze della morte. Perché è difficile riconciliare la tesi del «cavaliere dell’aria» ereditata dalla tradizione con quella del pilota spietato e privo di scrupoli che viene fuori dalla ricostruzione dei fatti. Manfred von Richthofen ha una personalità multiforme, è un miscuglio di sentimenti. In lui convivono coraggio e ferocia, istinto di sopravvivenza e disprezzo dell’altro, slancio vitale e mistica di morte.
Il più amato
Il suo mito nasce con la Grande Guerra, insieme a quello dell’aviazione militare. I piloti sono giovani spericolati, con un’aspettativa di vita di poche settimane; cui è concesso di duellare in cielo come uccelli anziché in trincea come topi, e che per questo conquistano il cuore della gente. Manfred è il più amato, un autentico angelo-eroe. Dispensa foto, autografi, interviste, e quando con il triplano vola sui villaggi del Reich, i bambini corrono sui tetti a sbracciarsi e sventolare bandiere.
Quest’ultima immagine è tratta dal suo diario di guerra pubblicato nel 1917 (Io Sono il Barone Rosso), ristampato nel 1920 e nel 1933, che però, a leggerlo oggi, potrebbe far pensare che il pilota fosse migliore dell’uomo. Manfred si diverte a colpire i civili, e si accanisce sui piloti nemici senza la minima compassione. Più che l’ultimo cavaliere in un mondo non ancora sopraffatto dalle armi di distruzione di massa, sembra il prototipo del combattente senza nome senza volto e senza cuore cui ci hanno abituato le guerre moderne.
Su una cosa non possono esservi dubbi: la formidabile abilità dell’aviatore-stratega. Diventa pilota nel 1915, dopo aver iniziato la guerra da ufficiale di cavalleria. Ed è l’incontro con Oswald Boelcke, padre dell’aviazione militare tedesca, a proiettarlo nell’universo degli assi. Riceve la decorazione Pour le Mérite alla fine del 1916, e in pochi mesi la sua squadriglia e poi il suo squadrone da caccia diventano leggendari grazie a una serie di intuizioni rivoluzionarie.
Il circo volante
Prima tra tutte il «circo volante», lo squadrone di aerei da caccia pitturati di rosso (il suo), nero, verde, giallo e adornati di geroglifici... Un’invenzione tribale e futurista, che ribalta il concetto del mimetismo e terrorizza il nemico. Quando non volano, viaggiano in convogli su strada, come un vero circo, in modo da poter decollare ogni volta dal punto ideale dello scacchiere e moltiplicare il potenziale offensivo. Manfred sa bene che le battaglie del cielo si vincono a terra – con la mobilità, le comunicazioni, il coordinamento interforze – ed è questa la sua lezione più grande.
L’ultimo anno è un’inesorabile discesa agli inferi: la ferita alla testa, la convalescenza forzata, lo spettro della sconfitta imminente... E anche se il pilota continua a macinare vittorie con un Fokker nuovo di zecca, l’uomo sente che la resa dei conti è vicina. Quando il 21 aprile 1918 decolla per l’ultima volta è un venticinquenne già vecchio, con gli occhi spenti e il viso segnato. In testa ha un desiderio finale, tipico del suo tempo e di una stirpe prussiana: poter morire senza essere vinto.
E così l’ultima soddisfazione se la toglie da morto, mentre i cacciatori di souvenir smontano a pezzi il triplano scarlatto: nonostante il colpo fatale, era riuscito a riportarlo a terra intatto, perché fosse chiaro che non era stato abbattuto.