Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  aprile 22 Domenica calendario

In principio fu il biliardo

Il nome di John Wesley Hyatt non dice molto alla maggior parte delle persone, eppure senza questo americano, che lavorava in una baracca insieme al fratello, non avremmo le plastiche sintetiche. Il termine “plastica” (letteralmente: “che ha molte parti”), coniato da un chimico svedese dell’inizio dell’Ottocento, Jöns Jacob Berzelius, indica una gamma molto vasta di materiali organici formati da un gruppo di composti fondati sul carbonio, solidi e plasmabili. Come racconta un ingegnere dei materiali dall’indubbio talento narrativo, Mark Miodownik, in La sostanza delle cose (Bollati Boringhieri, 249 pagine, 23 euro), tutto è cominciato con un annuncio pubblicitario sul New York Times: diecimila dollari a chi inventa un nuovo materiale per le palle di biliardo. Quelle in uso all’epoca erano d’avorio; troppo costose impedivano la diffusione dei biliardi nei locali e nei bar, fondamentali per attrarre la clientela. Siamo nel 1869 e Hyatt, con il sostegno economico di un ex generale della guerra civile, Marshal Lefferts, crea la celluloide, la prima plastica plasmabile per uso commerciale. Tuttavia nel 1861 Alexander Parkers, inventore inglese, detentore di decine di brevetti, lavorando sul collodio, ha già creato una sostanza simile di origine vegetale, dura, trasparente e plastica, cui ha dato nome “parkesina”. Da questa doppia nascita scaturisce un processo contro Hyatt: un imprenditore inglese s’è impossessato del procedimento di Parkers e vuole il brevetto. La sentenza del giudice Usa lascia invece aperta la questione liberando la ricerca sulle plastiche derivate dalla nitrocellulosa e la loro produzione industriale.

Ma cosa sono esattamente le materie plastiche? Dei polimeri puri o miscelati. Primo Levi, che come chimico organico di polimeri sintetici se ne intendeva – s’era salvato ad Auschwitz lavorando nel Reparto Polimerizzazione della Buna —, le ha definite “lunghe molecole, ma mute e brute”; le trovava “disperatamente monotone”, come quelle dei polimeri sintetici, che hanno virtù pratiche ma non “dicono” niente; o meglio: “ripetono all’infinito lo stesso messaggio”, così che se fossero un romanzo sarebbero un libro che ripete dalla prima all’ultima pagina sempre e solo la stessa sillaba.
Ci sono molte plastiche. La prima è del 1855; si chiama rayon, opera di Georges Audemars, una seta artificiale molto infiammabile. Nel 1887 Hannibal Williston Goodwin, pastore episcopale, usa invece la nitrocellulosa di Hyatt per creare con la celluloide il supporto delle pellicole fotografiche in sostituzione del pesante e ingombrante vetro. Da lì nasce la fotografia moderna e poi il cinema. Goodwin, vero imprenditore, inventa anche le macchine compatte Kodak. Il processo di polimerizzazione crea dunque vari tipi di plastiche. Tutte, o quasi, derivano dal petrolio. Le plastiche sono facili da lavorare rispetto ai metalli: sono economiche, colorabili, isolanti, idrorepellenti e non consentono a muffe e funghi d’insediarsi. Insomma, un elemento fondamentale della modernità, dalla bachelite (1907) al polivinilcloruro (1926), il Pvc, ancora in uso, per arrivare al polipropilene (1954) di Giulio Natta. Questi vince il Nobel con Karl Ziegler nel 1963 per aver creato una delle plastiche che più utilizziamo: tappi, colapasta, contenitori casalinghi, eccetera. Il più famoso prodotto della scoperta di Natta è Moplen. Natta è autore di un libro che Levi definisce bello: Stereochimica, molecole in 3D (Mondadori, 1978). Il chimico-scrittore lo cita in un saggio importante, dedicato tra l’altro alla polimerizzazione: L’asimmetria e la vita. Nei suoi scritti Levi fa l’elogio di un grande esperto di polimerizzazione: il ragno, inventore di un processo che avviene a comando, all’aperto e per trazione, la tela. È stata la scoperta di Hyatt ad aver dato l’avvio all’età dell’oro dell’ingegneria chimica che, ricorda Miodownik, sul piano imprenditoriale ha fatto fare molti soldi per mezzo della invenzione di nuovi materiali. Nel suo libro Miodownik non accenna però ai problemi che la plastica ha creato agli uomini. Primo Levi, invece, che con le molecole aveva lavorato per trent’anni alla Siva, l’industria di vernici di Settimo Torinese, ha parole di stima per le materie plastiche, ma ci mette anche in guardia da loro con vero spirito illuminista.
In Cerio, uno dei racconti del Sistema periodico, racconta del furto di una sostanza in Buna, da usare come mezzo di sopravvivenza, il cerio appunto. Nel laboratorio della fabbrica di gomma sintetica dei tedeschi ce n’erano altre – alcool e benzina —, però non si potevano trasportare facilmente. Servivano dei recipienti. E al riguardo Levi si lascia andare a una considerazione. Il problema dell’imballaggio, scrive, lo conosce bene il Padre eterno, che l’ha risolto con le membrane cellulari, il guscio delle uova, la buccia degli agrumi e la nostra pelle, perché tutte queste “cose” sono liquide. Allora, nel 1944, dice, non esisteva il polietilene, che avrebbe fatto comodo: flessibile, leggero, impermeabile. Purtroppo è anche incorruttibile. Forse per questo il Padre eterno “si è astenuto dal brevettarlo: a Lui le cose incorruttibili non piacciono”. Come non dargli ragione?