la Repubblica, 22 aprile 2018
Quando era Wenger a ispirare George Weah
Wenger lascia l’Arsenal dopo 22 anni: ottima durata, ma non è record. Davanti ha i 27 anni di Ferguson al Manchester Utd e in Francia i 44 di Guy Roux sulla panchina dell’Auxerre. Lascia pur avendo un altro anno di contratto. Forse pensa che questo sia il momento giusto, forse ha visto troppi tifosi con i cartelli “Wenger out”. Ha fama di grande perdente, da tempo lo chiamano mister Nobody, signor Nessuno. In verità ha collezionato 17 vittorie: 3 scudetti (uno senza perdere una partita), 7 Coppe d’Inghilterra e 7 Charity Shield. Alsaziano, che si scaldava solo quando affrontava Mourinho, con l’Arsenal nel destino (chiamandosi Arsène), gli va riconosciuto il merito di aver cambiato il calcio inglese, con robuste iniezioni di Francia (Henry, Vieira, Pirès, Giroud) e qualche refolo tra Spagna e Sudamerica (Fabregas, Sanchez). Quando allenava il Monaco Wenger chiese l’acquisto di un semisconosciuto Weah, che spiccò il salto di qualità. E continuò a saltare: Psg, Milan, Chelsea. Primo non europeo a vincere il Pallone d’oro. Da pochi mesi è presidente della Liberia, eletto con il 61% dei voti. Calciatori ministri ne abbiamo visti (Pelé) e calciatori sindaci pure (Kaladze a Tbilisi), ma presidenti di repubblica mai. Fervente difensore dei diritti civili prima di diventare presidente, pare che ora lo sia un po’ meno. Ha lanciato l’allarme il Cpj (Comitato internazionale per la protezione dei giornalisti) segnalando che in Liberia la libertà di stampa è in pericolo.
Il partito di Weah ha fatto causa per diffamazione al “Front Page Africa”, testata molto critica col governo, e chiesto due milioni di dollari di risarcimento, cifra alta in sé, altissima in una nazione che ha sopportato due guerre civili con circa 250mila morti, che è al numero 177 (su 184) al mondo nelle classifiche di sviluppo e dove il reddito annuo pro capite è di 540 dollari. Anche il corrispondente della Bbc, Jonathan Payne, ha dovuto lasciare la capitale, Monrovia, dopo pesanti minacce degli elettori di Weah. Ha detto: «Ho attaccato il presidente sul tema del tribunale per i crimini di guerra, non ancora istituito. Me ne sono andato prima che mi arrestassero». In questo quadro, letto sul Corsera, Weah nega ma fa capire che non è solo fumo.
«Garantisco il 200% di libertà d’espressione. Sono nato povero e ho un cuore buono, come potrei dare un giro di vite? Piuttosto, dico che i media dovrebbero elencare anche i risultati positivi ottenuti dal mio governo». Da oppositore al regime Weah fece le cose migliori: da giocatore del Milan, nel ’96, chiese l’intervento dell’Onu contro il dittatore Taylor. Nel 2000 ottenne il rilascio di quattro giornalisti inglesi in carcere per spionaggio. Da calciatore, era lui a finanziare la Nazionale liberiana, dalle divise alle trasferte. Come ispiratori e guide ideologiche ha sempre indicato due nomi: Silvio Berlusconi e Arsène Wenger.
Spazio ai libri, che da un po’ trascuravo. Il primo è “Tango bianconero” (ed. Bradipolibri) di Salvatore Lo Presti, per i colleghi Lopez (sembra un messicano). Racconta i 26 argentini che hanno indossato la maglia della Juve, dai molto dimenticati fratelli Boglietti a un altro Marchisio, che forse si chiamava Mauro e forse Napoleone. In copertina, ovviamente, ci sono Higuain e Dybala ma le pagine più saporite riguardano Luisito Monti, Mumo Orsi, Renato Cesarini e Omar Sivori. Su ognuno di questi quattro si potrebbe scrivere un libro, anzi qualcuno l’ha scritto. Il secondo libro è “Rivincite”, di Rudi Ghedini (ed. Paginauno), sottotitolo “Lo sport che scrive la storia”. Ghedini è un ricercatore serio e curioso.
Racconta storie note: i pugni chiusi di Smith e Carlos, il ’36 di Owens e Long, il gran rifiuto di Clay-Ali, Jim Thorpe, il barone von Cramm, ma anche meno note: quelle di Cathy Freeman, l’aborigena, di Carrascosa che rifiuta di giocare i mondiali ’78 (dell’Argentina era capitano), di Dawn Fraser rubabandiere, di Alice Coachman, prima donna nera a vincere un oro olimpico nel salto in alto a Londra, 1.68 nel 1948. Il terzo libro è “Calciopop” (ed. il Palindromo) di Giovanni Tarantino, giornalista palermitano, che si arruola da subito nella squadra dei mendicanti di buon calcio (il capitano è Eduardo Galeano) ed essendo pop svolazza tra gli Iron Maiden e Barbadillo, tra Enzo Ferrari (primo allenatore italiano a vincere al Bernabeu, quando allenava il Real Saragozza, febbraio 1985) e Francesco Guccini. Molte pagine sono dedicate al mondo degli ultrà. Infine, per variare un po’ il menù, ho deciso non si sa a che titolo di occuparmi di titoli. Roba breve. Premio per il miglior titolo di ispirazione letteraria al Foglio: “Il giro del nulla in 50 giorni”. Riguarda lo stallo della politica sulla formazione del governo. Voto 7. Premio per il miglior titolo trilingue alla Stampa:”Io, enfant terrible del barocco sexy rendo il lusso social”.
Voto 4.
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