la Repubblica, 23 aprile 2018
Le mani di Marta Argerich e i suoi tre figli
Tutto avviene senza tensioni, forzature o sfoggi: l’ascoltatore spettatore si ritrova – e non capisce come – immesso naturalmente dentro una dimensione musicale che sa fondere alla perfezione testa e cuore. L’artefice del prodigio è Martha Argerich: leggera nel controllo del pianoforte, intensa nelle sfumature emotive e avventurosa nel creare un suono che pare sgorgarle dalle mani. Quando siamo a cena, dopo il concerto tenuto a Brescia, dov’è ospite del Festival Pianistico per tre appuntamenti (ieri si è esibita a Bergamo e domani suonerà di nuovo a Brescia), la pianista argentina mostra da vicino le sue mani fresche, da ragazza: «Non so perché siano rimaste così», osserva sorniona. «Non ho segreti per mantenerle. Quel che faccio è suonare, sempre di più. Forse però non sono ancora matura». Arduo l’impatto di questa frase pronunciata da una signora che spicca come l’icona del pianismo mondiale, e a giugno approderà a suoi lucenti 77 anni. In che senso intende maturare? «Musicalmente, certo. Non si smette di cercare. Ma anche come persona. Non so bene chi sono e vorrei scoprirlo. Devo studiare filosofia. M’interessano La banalità del male di Hannah Arendt e i libri di Karl Jaspers”. È reduce da una festeggiatissima serata in cui ha proposto il Primo Concerto per pianoforte e orchestra di Beethoven, con Pier Carlo Orizio (direttore della manifestazione di Brescia e Bergamo) sul podio della Filarmonica del Festival, e con la partecipazione di Theodosia Ntokou come pianista nel Secondo Concerto per pianoforte e orchestra di Shostakovich. Si espone e si racconta, anche se notoriamente lei sfugge alle interviste, perché «della musica non si parla: la si fa e basta». Ma quando si abbandona al suo migliore mood, vaporoso e sconnesso, può chiacchierare al ristorante fino a notte alta: basta non spaventarla con le pianificazioni, che detesta. Forse a causa di quest’allergia ai progetti strutturati ha avuto tre figlie da tre uomini diversi. Padre della maggiore, Lyda, è il compositore cinese Robert Chen, mentre la seconda, Annie, è figlia del direttore Charles Dutoit. Infine Stéphanie nacque dalla relazione col pianista Stephen Kovacevich. Ora Martha si dichiara «sei volte nonna» e spiega di abitare «un po’ a Bruxelles, un po’ a Parigi e un po’ a Ginevra», con interludi in Giappone (dove ha un festival e una fondazione per i giovani) e viaggi in giro per il mondo con i suoi concerti. Vedi quelli dedicati a Debussy fatti di recente a Berlino insieme a Daniel Barenboim, col quale suonerà presto a Vienna. Hanno in comune un passato di bimbi-prodigio a Buenos Aires: «Le nostre madri ci portavano a casa di Ernesto Rosenthal, illuminato “amateur” di musica che aveva realizzato un meeting point per musicisti. E con Daniel, oltre a suonare, giocavamo sotto il pianoforte e mangiavamo strudel. Lungo i decenni non ci siamo mai persi. Amo il modo meraviglioso in cui suona Mozart, e lui mi dice che in musica ho la stessa spontaneità del baritono Dietrich Fischer-Dieskau». Lo spunto la conduce a segnalare un futuro progetto per pianoforte e voce: «Con Thomas Hampson eseguirò il ciclo di Lieder di Schumann Dichterliebe in Germania, forse ad Amburgo». A Dutoit, genitore di una sua figlia, è rimasta legata da un affetto “parentale” che la porta a sfiorare il tema scottante delle campagne sulle molestie alle donne, in cui il maestro svizzero (di carriera americana) è stato coinvolto per le accuse di quattro musiciste: «Oggi non può più dirigere negli Stati Uniti», riferisce Martha, «e io seguo questa globale vocazione femminile alla denuncia ponendomi domande. Mi sembra che in questo fiume che si riversa sui media manchino spesso gli interlocutori. I resoconti riempiono i social e la sola ipotesi di un’obiezione diventa sospetta. Inoltre capita che le orchestre Usa siano così spaventate dall’eventualità di perdere contributi da non approfondire le indagini interne e liquidare subito grandi musicisti».