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 2018  aprile 23 Lunedì calendario

Davide Morosinotto: «Rido, rubo, ascolto così conquisto i piccoli con nuove avventure»

Gli scrittori rubano tutto e da tutti.

Osservano, ascoltano e, se qualcosa accende la loro immaginazione, la afferrano».
Davide Morosinotto si è appropriato di molte cose: la battuta di un amico, il colpevole di un giallo, l’infanzia di un eroe di carta, la grande Storia, un catalogo di vendite per corrispondenza… Furti reiterati e consapevoli. Da ognuno è nato un libro. Oltre trenta, tradotti in una dozzina di lingue. Del resto lui è un fabbricante di storie: può lavorare su commissione, rileggere un classico o firmare la trasposizione di un cartone animato. Ma ha anche una sfrenata immaginazione che lo spinge a indagare il passato del capitano Nemo, ad armare di dentiere nonnetti alieni o a fondare repubbliche tra le nuvole. A volte una idea si trasforma in una partita di ping-pong dove ogni dettaglio rimbalza tra lui e i colleghi della bottega creativa di cui è socio fondatore: l’agenzia letteraria Book on a tree. Il suo ultimo romanzo – The game – nasce da “C’è l’hai una storia?”, concorso per ragazze e ragazzi sotto i diciotto anni per selezionare il migliore soggetto per un libro.
L’idea vincente di Francesca Carbotti – una voce che parla nella testa dei personaggi, un gioco che allude a manipolazioni – è stata trasformata da lui e dalla collega Lucia Vaccarino in un romanzo sul coraggio di ribellarsi. Poco prima, sempre per Mondadori, è uscito La sfolgorante luce di due stelle rosse,
un romanzo ambientato a Leningrado nel 1941, quando in pochi giorni tutti i bambini della città vennero caricati su treni speciali e portati lontano dall’avanzata del nemico. I protagonisti Viktor e Nadya sono due gemelli separati per errore e costretti a diventare eroi.
Morosinotto intreccia i loro diari con i verbali di un colonnello dei servizi segreti sovietici chiamato a giudicare se le azioni dei due fratelli siano meritevoli di encomio o punizione.
Perché un romanzo per ragazzi sull’assedio di Leningrado?
«Leggendo I novecento giorni di Harrison Salisbury ho scoperto i treni dei bambini. Uno dei convogli fu bombardato per errore. Non riuscivo a farmene una ragione: possibile che nessuno fosse sopravvissuto? Non potendo correggere la storia ho pensato di reinventarla. La letteratura può farlo».
Come ha scelto la formula dei diari?
«Era necessario che i protagonisti parlassero in prima persona, altrimenti sarebbe stato tutto troppo atroce. Mi sono immedesimato nei miei personaggi e ho cominciato a scrivere, sono venuti fuori dei diari ed è stato naturale differenziarli, anche graficamente».
Anche “Il rinomato catalogo Walker & Dawn” (Super premio Andersen 2017), era un tuffo nel passato, nella Louisiana del 1904.
«Entrambi i libri sono nati dalla mia voglia di scriverli. Li ho iniziati senza sapere se avrebbero incontrato l’interesse di un editore e li ho terminati in assoluta libertà. È come se scrivendoli mi fossi preso una vacanza dalla mia professione».
In che senso?
«Sono abituato a lavorare all’interno di un perimetro ben definito: lunghezza, lieto fine, scelta delle parole… Nella letteratura per l’infanzia tutto è calibrato sulla fascia di età a cui ci si rivolge. Non è una gabbia, è il mestiere. Le regole sono l’ossatura che sorregge le storie, ma questi due libri qualche libertà se la sono presa, ad esempio sono più lunghi di quello che normalmente accade».
Da dove nascono le storie?
«Spesso da chiacchierate con amici. Le repubbliche aeronautiche sono nate durante un pranzo. Un amico ha detto che la bandiera della Marina italiana riprende gli stemmi delle repubbliche marinare mentre l’Aeronautica no perché purtroppo repubbliche sulle nuvole non sono mai esistite… Ho riso, ma poi ho scritto quattro libri».
Capita spesso che le idee arrivino da altri?
«Faccio parte di un gruppo di scrittori che da una decina di anni a questa parte ha unito le forze. È stata una idea di Pierdomenico Baccalario a cui non piaceva lavorare in solitudine. Ci eravamo dati un nome, gli immergenti… Oggi siamo diventati un’agenzia letteraria, abbiamo un general manager e degli agenti internazionali, ma continuiamo a fare gioco di squadra. Siamo una trentina di autori e ognuno mette a disposizione degli altri le proprie competenze. La regola è: accetta le idee migliori».
Lei quale ha accettato?
«Mentre scrivevo Il rinomato catalogo mi sono accorto di avere un problema e neppure piccolo: non sapevo chi fosse il colpevole. Ho invitato a cena Alessandro Gatti, formidabile giallista per ragazzi, e gli ho raccontato l’avventura di questi quattro amici: l’orologio rotto che avevano ricevuto per errore dopo avere ordinato da un catalogo di vendita per corrispondenza una pistola, il morto sul fiume, il misterioso omicidio anni prima, insomma tutti i dettagli. Alla fine della cena, lui mi ha detto chi era il colpevole».
Più che un’agenzia letteraria sembra una bottega del Rinascimento.
«Siamo un circolo creativo che riunisce talenti diversi. L’idea è quella degli Inklings di Tolkien, degli impressionisti francesi, dei collaborative circles analizzati dal sociologo Michael P. Farrell».
Rivisitazioni di classici, avventure, gialli, saghe fantasy… Ha scritto più di trenta romanzi, perché non li ha firmati tutti con il suo nome?
«Ho scritto libri che nascevano da cartoni animati, che davano vita a mondi e immaginari che non mi appartenevano. Non aveva senso usare il mio nome. A volte ho usato uno pseudonimo per divertimento. La serie The Academy, scritta insieme a Baccalario, è stata firmata Amelia Drake. Inventarsi l’autrice è stato un altro modo di giocare».
I lettori fanno caso al nome?
«Attorno ai dodici o tredici anni può accadere che chi è stato conquistato da un libro abbia la curiosità di leggerne un altro dello stesso scrittore, ma prima no. I bambini sono interessati alle storie, non a chi le scrive. È una gran fatica, ogni volta devi riconquistare i lettori da zero».