la Repubblica, 23 aprile 2018
Oussama Khatib: «Il senso del mio robot per i tesori sommersi»
ROMA Lo chiamano uomo robot.
Oussama Khatib, ingegnere siriano e professore dell’università di Stanford, ha fatto della robotica una missione di vita. A 18 anni ha salutato Aleppo. Poi gli studi in Francia, il lavoro negli Stati Uniti, viaggi in giro per il mondo e decine di foto ricordo che mostra sullo schermo del computer, dove è sempre circondato da ragazzi. «Vivo su un aereo. Ho studenti in ogni parte del pianeta, a dispetto di guerre e frontiere: i valori che diffondiamo attraverso la scienza sono più forti».
Quando si parla di macchine che imitano gli esseri umani, Khatib è punto di riferimento. Ha sviluppato “Romeo and Juliet”: coppia di bracci robotici in grado di lavorare insieme. Ha collaborato con Honda per migliorare Asimo, l’assistente mobile tuttofare creato dalla multinazionale giapponese.
Il suo ultimo gioiello è il primo robot umanoide sub. Si chiama OceanOne e ambisce a recuperare i tesori persi in fondo al mare grazie a un tocco delicato e alla capacità di inabissarsi a profondità irraggiungibili dai sommozzatori in carne ed ossa.
Khatib ne ha parlato alla RomeCup 2018: tre giorni dedicati alla robotica, organizzati dalla Fondazione mondo digitale e l’università Campus Bio-Medico di Roma.
Perché OceanOne?
«È nato per studiare la barriera corallina del Mar Rosso, poi abbiamo pensato che poteva essere utile anche per l’esplorazione oceanica. I sub riescono a immergersi fino a 40 metri indossando una sorta di tuta spaziale che non gli dà libertà di movimento: avevamo bisogno di un robot resistente, ma allo stesso tempo dotato di una presa salda e un tocco delicato. Come quello dell’uomo».
Che cosa lo rende speciale?
«Beneficia di 35 anni di ricerca e quattro di lavoro. In pratica, è un avatar con cui possiamo nuotare nel profondo blu senza bagnarci.
Chi lo guida riesce a vedere ciò che guarda OceanOne, attraverso le telecamere frontali, e soprattutto a sentire ciò che tocca grazie a dei sensori di forza disposti nelle mani. Difetti: pesa circa 260 chili e ci sono solo due modi per farlo funzionare. Mandarlo nello spazio o metterlo in acqua. L’abbiamo allenato nella piscina di Stanford».
La prima missione?
«Nel 2016, a 20 miglia dalla costa meridionale della Francia. Durante una spedizione di due ore, OceanOne è sceso 91 metri sotto il mare per raggiungere La Lune: un vascello della flotta di re Luigi XIV affondato nel 1664. Qui ha recuperato un vaso dell’epoca rimasto intatto. Sono stato il primo umano a toccarlo dopo 354 anni: una grande emozione. Ma non è finita: stiamo lavorando a un nuovo modello in grado di inabissarsi ancora di più e abbiamo in programma altre esplorazioni, non solo nel Mediterraneo. Sono centinaia i cimeli preziosi sommersi che gli archeologi sognano di recuperare con il nostro robot».
Altre applicazioni?
«Nelle miniere, per la manutenzione di piattaforme petrolifere, ad alta quota e nella chirurgia subacquea. Tutti contesti estremamente rischiosi, dove i robot possono affiancarci per rendere il lavoro meno faticoso e più sicuro».
In molti, però, li temono.
«Spesso si tratta di persone che non conoscono la tecnologia. Certo, chi la sviluppa deve sempre riflettere sulle potenziali applicazioni e l’automazione sta già avendo un enorme impatto sul mondo del lavoro: basti pensare all’assistenza telefonica, oppure alle casse di molti supermercati. Ma la nuova robotica è progettata per settori in cui le macchine non possono essere dotate di completa autonomia. Noi saremo la mente, il robot il braccio».
Da sempre le sue ricerche si ispirano all’uomo e alla natura.
Perché?
«Il modo in cui coordiniamo tutti i muscoli del corpo, facendo il minimo sforzo senza nemmeno rendercene conto, è sorprendente. Se vogliamo creare dei robot che diventino parte della nostra vita quotidiana e riescano a interagire con l’ambiente circostante in tempo reale, non possiamo che guardare agli esseri umani: siamo ancora la miglior macchina esistente».