la Repubblica, 23 aprile 2018
Una frase, un rigo appena di Manuel Puig
Torna “Una frase, un rigo appena”, romanzo del grande argentino La signora di Shangai – uno di quei film in cui viene rappresentato un tradimento di Rita Hayworth – termina con una memorabile battuta pronunciata da Orson Welles: «L’importante è saper invecchiare bene». Queste parole calzano a pennello al recente e prezioso repechage di Sur. Tradotto una prima volta da Enrico Cicogna per Feltrinelli nel 1971 e successivamente da Angelo Morino per Sellerio nel 1996, Una frase, un rigo appena (1969), al pari di classici come La moglie di Frankenstein o Rebecca che tanto avevano colpito Manuel Puig (1932-1990) da bambino, non risente del trascorrere del tempo. Ancora oggi questo feuilleton in cui compaiono amori infelici, inganni, crimini e vendette, oltre a far riflettere per la critica sottile all’oppressiva società argentina – dietro l’immaginario paesino Coronel Vallejos c’è General Villegas, il luogo natale di Puig –, coinvolge, diverte e commuove. Ci rendiamo conto di aver usato un termine che forse farà storcere il naso a qualcuno. Sì, perché, come rivendicava con orgoglio il sottotitolo della prima edizione, Una frase, un rigo appena è un feuilleton vero e proprio, senza nessuna intenzione parodistica da parte dell’autore, e lo è non solo per i personaggi, per il loro modo di esprimersi, per le vicende, ma anche per la struttura adottata dal suo creatore. La storia – in origine pensata per una pubblicazione su una rivista – è divisa in puntate che si interrompono sul più bello lasciando il lettore con il fiato sospeso; a un certo punto c’è perfino un riepilogo. Ma Una frase, un rigo appena è anche molto altro e ha conservato intatto il suo potere di sconcertare: immaginate un romanzo d’appendice in bilico tra il melodramma di Hollywood e James Joyce (anche se Puig si divertiva a spiazzare gli interlocutori ridimensionando l’influenza joyciana: «Ho sfogliato un po’ l’Ulisse e ho visto che era un libro composto con tecniche differenti. Basta. Quello mi è piaciuto»). «C’è una lezione completa qui, per chi pensa che le acque si dividano con facilità» – osserva lo scrittore argentino Luciano Lamberti – «da un lato ci sono gli scrittori popolari, quelli che raccontano una storia, che vanno dall’inizio alla fine, e dall’altro quelli che sperimentano e rinnovano i generi. Puig è la grande eccezione». Infatti, come ritiene Ricardo Piglia, Puig vuole scrivere per Madame Bovary e vuole scrivere un nuovo Madame Bovary. Vale a dire, è uno scrittore sofisticato e popolare che offre a un pubblico ampio un prodotto artistico autentico. Con Una frase, un rigo appena, Puig prosegue gli esperimenti inaugurati nel lirico e autobiografico Il tradimento di Rita Hayworth (1968): assenza di un narratore, coralità della storia, costruzione frammentaria, tendenza alle digressioni, molteplicità di piani temporali, ellissi come ne Il bacio della pantera di Jacques Tourneur (che avrà un ruolo determinante nel successivo Il bacio della donna ragno). Ma forse, rispetto al suo esordio, qui c’è una libertà narrativa perfino maggiore: si susseguono lettere, minuziose descrizioni di album fotografici, articoli di giornali, annotazioni su agende, versi di canzoni (il titolo originale Boquitas pintadas rende omaggio a un tango di Gardel), monologhi interiori e conversazioni telefoniche, verbali della polizia e confessioni a un prete, sceneggiati radiofonici e altro ancora. Sempre secondo Lamberti, il lettore deve agire come un detective: «Puig rompe la realtà e ce ne regala i frammenti affinché noi li rimontiamo come possiamo. Porta nella letteratura le tecniche del montaggio cinematografico, ed è il lettore che deve riempire i vuoti e capire le motivazioni dei personaggi». Abbiamo iniziato sottolineando come Una frase, un rigo appena sia invecchiato bene. Forse, riprendendo una canzone degli anni Sessanta di un altro artista sofisticato e popolare, è più esatto dire che queste pagine di ieri sono molto più giovani oggi.