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 2018  aprile 22 Domenica calendario

Le protesi di plastica e l’Afghanistan

In Afghanistan guerra e mine hanno lasciato un esercito di amputati. Ma con gli arti in legno i bimbi non possono correre, dice il medico che li cura. Indovinate con cosa di Alberto Cairo, fotografia di Giovanni Porzio In Afghanistan la prima protesi che aiutai un paziente ad infilare era in legno, metallo e cuoio, l’aria particolarmente sinistra. Migliori d’aspetto ma ben poco funzionali, erano quelle in resina, importate da qualche paese comunista. Parlo di quasi trent’anni fa. Allora i russi invasori se ne erano appena andati, lasciando il regime filocomunista del presidente Najibullah arroccato nelle città che i mujaheddin assediavano. Soldati e civili saltavano sulle mine antiuomo a centinaia, formando un esercito di amputati dei quali l’Afghanistan era incapace di prendersi cura. Un paio di organizzazioni straniere, tra cui la Croce Rossa Internazionale, avevano aperto dei centri di riabilitazione senza riuscire a soddisfare la domanda di gambe e braccia. Io, fisioterapista, ogni giorno guardavo i pazienti sudare scoraggiati nel muovere passi incerti su protesi del peso di un macigno. Per i bambini una fatica disumana. Pure fabbricarle era una sfida e ogni modifica richiedeva ore di lavoro. In qualche modo funzionavano ( o quello o niente), ma non pochi, ricevutele, le appendevano al chiodo. Poi, improvviso, il miracolo. Me lo mostrò orgoglioso un collega svizzero, tecnico ortopedico. Era una gamba di colore bianco latte, un po’ trasparente, l’aria fragile. Per essere gentile, chiesi come intendesse fissare i montanti in metallo. Non servono, già è completa, rispose. Il giorno dopo eravamo tutti là, incantati, a vedere la prima prova. Immensamente più leggera e funzionale, il paziente volava. A parte il bullone che fissava la gamba al piede, tutto era in plastica. Appresi che la settimana prima un container pieno di lastre di quella plastica era arrivato a Kabul dopo mesi di attesa, viaggiando per mare e attraverso non so quante frontiere. Homopolymer Polypropylene il suo nome per intero. Pochi afghani l’avrebbero saputo pronunciare, ma tantissimi avrebbero fatto uso di quelle nuove protesi facili da fabbricare, forti e modificabili in un momento. E poco costose. Cosa non indifferente, considerato che a un amputato ne occorre una ogni due o tre anni, a bambini e adolescenti ogni sei mesi perché crescono. Tra protesi e tutori, oggi ne facciamo ventimila l’anno. La voce allora si sparse, i pazienti presero ad arrivare in gran numero, compresi i bambini – forse i maggiori beneficiari – e dovemmo aprire centri in varie città, ora sono sette e non ancora bastano. Anche le altre organizzazioni afghane per disabili adottarono la plastica e lo stesso modo di lavorarla, rendendo possibile assistenza e riparazioni ovunque. Da allora il container arriva ogni anno, benedetto. Col tempo poi la tecnica è migliorata, il colore diventato simile a quello della pelle, i piedi a prova d’acqua, le forme più anatomiche. Perfette per paesi poveri e in difficoltà come l’Afghanistan, le protesi in plastica non sono rare neppure in Europa. Di certo hanno migliorato enormemente la vita di migliaia e migliaia di persone. E pure la mia, rendendo il mio lavoro più facile e soddisfacente. Viva la plastica, dunque, senza riserve? Senza riserve no. Dipende da come uno la gestisce. Produzione e uso vanno regolati, la gente educata, i limiti imposti. L’Afghanistan, ahimé, ne è letteralmente invaso. Gli afghani piangono quando sentono l’inno nazionale, la patria prima di tutti, la nostra vita per lei, giurano: in realtà non sembrano amarla così tanto guardando a come la riducono, con sacchetti e bottiglie gettate ovunque, fuochi e fumi che bruciano ogni cosa. Ma siamo obiettivi, come esigere senso civico e rispetto dove si vive alla giornata, dove domani è un futuro già troppo lontano? Possibile senza una vera pace ? Dimenticavo. La plastica delle nostre protesi è riciclabile e riciclata. Quelle vecchie, fatte a pezzi e fuse, diventano giunti e parti interne per altre protesi, manici di stampelle, appoggia-piedi e gomiti delle carrozzine. O vasi e sottovasi, cercando di contenere l’inquinamento al massimo. Dunque, per i quasi duecentomila disabili afghani che assistiamo, VIVA la PLASTICA. Senza dubbio.