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 2018  aprile 22 Domenica calendario

La scienza è nata col freddo

Di fronte alle grandi questioni sul passato, gli storici d’oggi, ben più dei loro predecessori, rinunciano ad adottare prospettive ampie nel tempo e nello spazio. È un coraggio che non manca al libro del filosofo e giornalista Philipp Blom, pubblicato in tedesco nel 2017 e tradotto ora per Marsilio da Francesco Peri con il titolo Il primo inverno : un saggio divulgativo e non specialistico, che ha però il respiro delle grandi opere storiche del Novecento. L’oggetto del suo narrare è spiegato nel sottotitolo, che in italiano è una sintesi della lunga versione originale: La piccola era glaciale e l’inizio della modernità europea.
La piccola era glaciale di cui si parla è un fenomeno di irrigidimento del clima che l’autore colloca tra il 1570 e il XVIII secolo e che interessò non solo l’Europa, ma il mondo intero. Il cambiamento climatico fece seguito a un lungo, caldo Medioevo, in cui la mitezza delle stagioni aveva sì favorito il propagarsi della tremenda peste nera del 1348, ma anche la successiva ripresa demografica, lenta eppur costante.
Fino al termine del Cinquecento il tempo atmosferico si era mostrato benevolo con il genere umano, e con gli europei soprattutto. L’agricoltura aveva prosperato nonostante l’arretratezza degli strumenti e dei sistemi produttivi, arricchendo, se non i contadini, almeno l’aristocrazia e i grandi proprietari terrieri; le condizioni meteorologiche avevano favorito i commerci, i viaggi, le scoperte. E tuttavia, per cause definite ancora incerte dall’autore, questa congiuntura climatica favorevole si rovesciò improvvisamente in un crollo delle temperature medie di circa due gradi, con «inverni glaciali, estati piovose e primavere funestate dalla grandine».
Le correnti marine e oceaniche si raffreddarono, causando migrazioni ittiche, tempeste e maremoti; contemporaneamente, l’attività sismica si risvegliò in molte parti delle terre emerse, sollevando cortine di cenere a coprire il già pallido sole. Medie stagionali più basse e umidità diffusa danneggiarono la produzione dei cereali maggiori, come il grano, e quella del vino, cardini dell’alimentazione europea. Di conseguenza, le carestie si avvicendarono a un ritmo insolitamente serrato, perché l’agricoltura di sussistenza non permetteva di fare scorta di sementi. Di semi e cibo facevano incetta gli ordini religiosi o i mercanti cittadini; alla ricerca di queste riserve, folle contadine affamate sciamavano verso le città, dando luogo a disordini e rivolte.
In questo drammatico scenario, immortalato dalle allegorie pittoriche di Avercamp e Bruegel nella morsa implacabile di ghiaccio e neve, l’Europa non cessò di trasformarsi, assecondando i mutamenti che avevano accompagnato il Rinascimento, la Riforma protestante e la scoperta del Nuovo Mondo. Il problema di Blom è capire in che modo i cambiamenti climatici del primo inverno, destabilizzando l’assetto economico del continente, investirono la società e la politica, l’arte e la cultura, la religione e la scienza.
Esiste un nesso di causa-effetto tra freddo, fame e carestia e la nascita della mentalità moderna? Per rispondere, l’autore dipinge un affresco che si direbbe arioso e a tinte calde, se non si collocasse sotto una cappa di cenere vulcanica, tra pianure innevate e alberi stecchiti, sulle rive di fiumi e laghi ghiacciati così in profondità da poter reggere interi mercati. È un quadro che utilizza la lente del tempo atmosferico, delle escursioni termiche e delle anomalie climatiche per raccontare un continente travagliato da guerre di religione e fanatismi, da superstizioni e cacce alle streghe e che nondimeno, nel giro di due secoli eccezionalmente freddi, giunse a colmare la distanza dal nostro presente sotto innumerevoli aspetti.
Battuta dalle precipitazioni, attanagliata da una natura più che matrigna, l’Europa assistette al crollo della feudalità e dell’Antico Regime, diede i natali a due rivoluzioni politiche (inglese e francese) e alla rivoluzione scientifica; «adottò» il sistema solare copernicano; teorizzò il relativismo culturale con Montaigne e Bayle, il razionalismo con Descartes, lo Stato-Leviatano con Hobbes, la libertà e i diritti con Spinoza e Locke e la sfera pubblica con Mandeville; passò dai fanti mercenari alle unità di moschetteria; sperimentò mercantilismo e liberismo; creò le società per azioni, il capitalismo e finanche gli anticapitalisti. Quanto c’entri, in tutto questo, il grande freddo, l’autore lo spiega solo in parte, e non sempre in modo convincente: la temperatura di cui parla è, per buona parte, quella emanata dai dibattiti filosofici, dall’intelligenza innovatrice, dall’energia della polemica, dalla battaglia delle idee.
Ne risulta un’opera vivida, brulicante di vicende biografiche e avventure culturali, non sempre stimolate da fame e gelo. Alcuni storici del clima non l’hanno apprezzata, accusando l’autore di colpevoli inesattezze, di cronologie fantasiose e di poca dimestichezza con i fenomeni atmosferici e le fonti storiche. Gli errori, però, non inficiano l’interesse di un lavoro in cui il clima è spesso un semplice pretesto, un espediente narrativo per ben raccontare le trasformazioni culturali della prima età moderna. Il ghiaccio è a parte.