Libero, 22 aprile 2018
Mussolini, il più disobbedito dei dittatori
Del fascismo come “totalitarismo mancato” si parla spesso nella storiografia. Si sa come in Italia la dittatura di Benito Mussolini sia stata tutt’altro che assoluta, tanto che lo si definì “l’uomo più disubbidito del paese”. Il dominio del Partito Nazionale Fascista sulla vita pubblica fu parziale, spesso di facciata, costretto a patteggiare con poteri paralleli come la monarchia dei Savoia e la Chiesa cattolica. Nulla di più diverso dalla Germania di Hitler o dalla Russia Sovietica di Stalin, dove il primato dei regimi fu indiscusso. Non a caso, solo in Italia si ebbe un collasso come quello fra il 25 luglio e l’8 settembre 1943, dall’arresto di Mussolini da parte del re Vittorio Emanuele III all’armistizio con gli angloamericani e alla rottura dell’alleanza coi tedeschi. A far luce sull’incompleta sovrapposizione fra dittatura fascista e apparato istituzionale arriva ora un saggio di Guido Melis, La macchina imperfetta, editrice Il Mulino (620 pp, euro 38). Il testo ripercorre con dovizia vent’anni di complessi rapporti fra il PNF, l’apparato giudiziario e la burocrazia, evidenziando come il regime abbia dovuto “incastrarsi” con le preesistenti strutture, anche clientelari, dello Stato liberale, i cui funzionari non fecero che prendersi la tessera del partito per seguitare a lavorare senza noie. I fascisti, quelli di sinceri ideali, intuivano di essere una minoranza e pensando di espandere la propria influenza favorirono una crescita abnorme del numero di enti pubblici, per tentare di accalappiare ogni possibile categoria o consorteria. Dati alla mano, negli ultimi anni dell’Italia liberale, dal 1912 al 1922, lo Stato creò “solo” 62 enti, contando anche l’emergenza della Grande Guerra, mentre dal 1923 al 1943, in un periodo di durata doppia, gli enti nuovi furono il quintuplo, ossia 339. Nota l’autore: “Un’immensa massa di risorse, molto spesso derivanti dal bilancio dello Stato ma gestite, ecco il punto, fuori delle sue severe regole contabili, prese la via dei bilanci particolari degli enti e lì si nascose, sottraendosi all’occhiuto controllo della Ragioneria generale”. Anziché diffondere l’ideologia, questa pratica creò feudi autogiustificati dagli interessi economici in termini di finanziamenti e prebende. Fu una logica privatistica a prevalere, come anche nell’imprenditoria di stato simboleggiata dall’IRI che, fondato nel 1933, durò fino al 2002, rivelando in sé una spina dorsale talmente aliena dal fascismo da sopravvivergli. riproduzione riservata