Il Sole 24 Ore, 22 aprile 2018
La negazione della negazione è ancora una negazione
I meccanismi di esclusione che separano l’amico dal nemico, l’uomo «ben riuscito» dall’Untermensch e, in sostanza, «noi» da «loro», si fondano sul principio logico della negazione. Attraverso la foucaultiana operazione del partage si nega all’altro l’appartenenza a una certa specie, razza o civiltà privilegiata e, di conseguenza, si svaluta, si disprezza o si odia chi ne è fuori: lo schiavo, il selvaggio, il barbaro, l’ebreo, lo straniero. Il «no» del linguaggio e l’operazione logica dell’omnis determinatio est negatio – trasferendosi nella politica, radicalizzandosi e adattandosi ai tempi – passano dall’atto di privare qualcuno di una determinata qualità, a quello della sua distruzione, dalla negazione all’annientamento.
Sono questi i presupposti «metafisici» che hanno a lungo caratterizzato non solo il pensiero politico, ma anche la storia e le pratiche della modernità, da Hobbes fino a Carl Schmitt, da Hegel a Heidegger o da Freud a Kojève. Pur dichiarando l’equivalenza astratta del «sì» e del «no», dell’affermazione e della negazione, il negativo prende spesso il sopravvento e perfino la dialettica negazione della negazione non dà luogo all’affermazione, ma a una negatività rafforzata.
Dopo la fine dei grandi totalitarismi novecenteschi, sembrava che la «mitezza» della democrazia dovesse prevalere e permettere una pacifica coesistenza di forze in contrasto, ma ciò non è avvenuto: «Il negativo è tornato a diffondersi nel tutto, diventando una configurazione stessa del mondo contemporaneo, sempre più simile a una a una sorta di guerra civile mondiale». Nessun compromesso sembra, ad esempio, possibile con gli esponenti della Jihad: «Con questo terrorismo non è possibile né combattere in campo aperto né trattare, visto che esso non solo non teme la morte, ma la invoca».
Già in Hobbes il passaggio dallo stato di natura allo Stato parte da una netta cancellazione delle origini, così come la pace è solo il tempo non occupato dalla guerra. Il polemos si intreccia così strettamente con il logos, senza tuttavia osare spingersi verso la distruzione dell’altro. Malgrado cerchi di difendersi dall’accusa di aver potenziato la negazione a spese dell’affermazione, in Carl Schmitt, «una volta anteposto il nemico all’amico e la guerra alla pace, l’effetto inevitabile che ne deriva è una perdita di confini e un’identificazione degli opposti». “Il politico” non riesce a delimitare sufficientemente l’ostilità, la quale, rotti gli argini, si riversa in ogni ambito della vita.
La deriva in direzione dell’annichilimento si accentua in Heidegger, in quanto in lui il niente precede la negazione logica, come si evince chiaramente da Cos’è la metafisica?:«Più profonda della semplice adeguatezza alla negazione logica è la durezza dell’agire ostile e l’asprezza del detestare». Per combattere gli elementi negativi insiti nella cultura contemporanea (lo «sradicamento»e la «desertificazione» dell’esistenza dovute alle potenze della tecnica e del cosmopolitismo, incarnate nell’ebraismo, nel bolscevismo e nell’americanismo) egli non esita a sostenere la politica nazionalsocialista di estirpazione del popolo ebraico, che è una «non-razza» o una «controrazza»: «C’è qualcosa di più che fa del popolo ebraico il popolo dell’annientamento. È il fatto che esso lo rivolge anche contro se stesso, come una sorta di malattia autoimmune in cui il negativo batte contro il medesimo corpo che lo produce, devastandolo. Quello ebraico è il popolo in cui l’annientamento (Vernichtung) si raddoppia in autoannientamento (Selbstvernichtung), riversando sulle vittime la responsabilità dei carnefici (…) Non solo, anzi, gli ebrei sono gli autori del proprio annientamento, ma anche la causa, per contagio, di quello altrui – come sperimentano alla fine della guerra i tedeschi e, con essi, l’intero Occidente».
Dopo questa innovativa e robusta analisi degli effetti della «macchina metafisica della negazione»sulla moderna politica, Roberto Esposito propone con teorica audacia degli antidoti. E lo fa sul piano specificamente filosofico, rielaborando concetti e spunti tratti da Spinoza, Nietzsche, Bergson, Deleuze e Foucault, tutti sostanzialmente incardinati nella sostituzione della categoria di «differenza» con quella di «negazione» e nella ricerca di una determinatio che sia affirmatio, di una relazione tra i termini che non sia di identificazione, bensì di differenziazione di elementi singolari. Con Bergson, Esposito scopre il carattere parassitario della negazione, che «beneficia dell’affermazione che la fonda: cavalcando il nucleo della realtà positiva cui è connesso, questo fantasma si oggettiva». Con Spinoza dà consistenza al concetto di una libertà positiva che non si riduca, in ultima istanza, a negativa: «Spinoza interviene, liberandolo dall’identificazione con la necessità esteriore. Non solo la necessità non ha nulla a che vedere con la coazione esterna, ma ne costituisce l’esatto contrario. Essa è la struttura immanente dell’essere, dunque coincidente con la sola libertà possibile».
In questo senso, aggiungo, essere liberi non significa essere privi di condizionamenti. Non possiamo, ad esempio, sulla superficie del nostro pianeta, sfuggire alla forza di gravità, ma diversa è la dipendenza da essa del bambino che si muove carponi e quella del ballerino o dell’atleta che si libra in aria a un metro da terra. La libertà è coscienza della necessità, ma ci sono diversi gradi di necessità da scalare per conquistarla.
La struttura del libro di Esposito è complessa e apre verso ulteriori ricerche, che solo in parte procedono lungo la linea già tracciata dal suo precedente volume Due. La macchina della teologia politica e il ruolo del pensiero, del 2013. Resta aperta la questione su come degli elementi irrelati, “differenti”, possano entrare in un contesto discorsivo bypassando completamente o stemperando la negazione.
Roberto Esposito, Politica e negazione. Per una filosofia affermativa, Einaudi, Torino, pagg. 207, € 22