La Stampa, 22 aprile 2018
Tasse e dazi di Trump. Possibilità e pericoli
Continua la tattica di avvicinamento alle elezioni di fine anno da parte del presidente Trump, quando verrà rinnovata completamente la Camera dei Rappresentanti, 1/3 del Senato, e verranno inoltre scelti i governatori di 36 stati su 50. Mentre noi in Italia siamo tutti concentrati sulle alleanze del prossimo governo, in America si prendono decisioni che avranno impatti diretti sulla nostra vita, sia in politica estera (Siria), sia in politica economica.
Concentriamoci su quest’ultima. Il presidente americano ha scoccato due frecce dal suo arco che dovrebbero aumentare il consenso nel breve termine.
La prima freccia è la riforma fiscale. La riduzione delle aliquote sul reddito delle persone fisiche, e in particolare l’aliquota marinale per le due principali classi medie, si applica già dalla dichiarazione di quest’anno e dunque l’effetto sarà immediatamente tangibile tra aprile e ottobre, quando gli americani pagano le tasse. Poco importa al cittadino americano che la riforma è a tempo e scadrà tra 10 anni. Ancora più rilevante negli effetti è la riforma della tassazione delle imprese che aumenta la base imponibile di circa il 10 per cento perché elimina alcune deduzioni ma taglia significativamente l’aliquota, dal 35 al 21 per cento.
C’è poi la questione dei dazi, già applicati all’import di lavatrici e pannelli fotovoltaici (8 miliardi di dollari) e di acciaio e alluminio (45 miliardi, di cui 30 temporaneamente esentati). E sono annunciati dazi su 1.300 prodotti cinesi, anche ad alta tecnologia, per 50 miliardi di acquisti Usa. L’obiettivo è ridurre di almeno 1/3 il deficit commerciale con i cinesi e aumentare le produzioni autoctone, creando posti di lavoro e consenso politico.
Probabilmente la tattica Trump avrà successo, ma ci sono degli ostacoli che potrebbero frenare il consenso al momento delle elezioni di medio termine e trasformare le sue politiche economiche in un boomerang. Partiamo dalla riforma fiscale. Secondo uno studio pubblicato a marzo da Ernst & Young, le tasse statali sulle imprese potrebbero aumentare significativamente se, come normalmente avviene, i singoli stati adegueranno la base imponibile alla legge federale. Poiché non hanno modificato le loro aliquote, il gettito per gli Stati aumenterà, spiazzando almeno parzialmente agli occhi delle imprese i benefici fiscali della riforma Trump. Certo, Trump potrebbe dare la colpa ai governatori, soprattutto democratici, ma è un gioco rischioso dal punto di vista del consenso e gli elettori si potrebbero sentirsi traditi quando andranno a pesare gli effetti sui loro profitti.
Per quanto riguarda i dazi, i cinesi non hanno perso tempo, imponendo tariffe su 128 prodotti importati dagli Stati Uniti, specie nell’agroalimentare, per un valore di circa 3 miliardi di dollari all’anno (equivalente a quello dell’acciaio e dell’alluminio cinesi venduti negli Usa). E, soprattutto, hanno individuato una lista di altri 106 prodotti americani su cui applicare dazi del 25% (tra cui soia, aerei, automobili e prodotti chimici per un valore di 50 miliardi di dollari), se entreranno in vigore le ulteriori barriere tariffarie Usa sui prodotti cinesi.
C’è una differenza sostanziale tra le azioni degli americani e quelle dei cinesi: i primi hanno individuato un vasto numero di beni da colpire (1300), per cui ogni settore produttivo risentirà relativamente poco delle barriere tariffarie; i secondi invece si limiterebbero a pochi beni (106), la cui produzione è concentrata in specifici Stati americani, creando danni imponenti a quelle economie locali.
Se prendiamo il peso percentuale delle esportazioni americane verso la Cina che sarebbero colpite dai dazi, sia quelli già in vigore, sia quelli annunciati come ritorsione se Trump insisterà, il 75 per cento dei dazi si concentrerà in sei Stati: Louisiana, Oregon, California, Texas e Stato di Washington. Certo gli abitanti di questi Stati difficilmente vedranno i benefici della politica commerciale dell’amministrazione Trump, e se i tre Stati della costa Ovest sono democratici e certo non hanno simpatie per Trump, lo stesso non può dirsi di Texas e Louisiana.
Certo è che le tasche degli americani, che Trump vuole riempire, potrebbero presto trovarsi un po’ meno piene di quanto promesso.
*Capo economista di Confindustria
@MontaninoUSA