la Repubblica, 22 aprile 2018
Soldini e le traversate in mezzo alla spazzatura
Dalle lampade cinesi. Fino alle bombole di gas. Oggi il velista dei record non deve più lottare contro il tempo: il suo avversario più temibile è diventata la spazzatura. E quel vortice in cui è meglio non entrare di Giovanni Soldini, fotografie di Floris Kok Tutte le volte che ho attraversato il Pacifico del nord mi sono imbattuto in quello che chiamano “Pacific Trash Vortex” o isola di plastica, una zona con una densità di oggetti galleggianti fuori dal comune. La prima volta che mi sono reso conto della gravità della situazione è stato nel 2015, a bordo di Maserati durante il record San Francisco- Shanghai. Nella zona a nord est delle isole Hawaii la quantità di oggetti che io e il mio equipaggio abbiamo visto sfrecciare di fianco alla barca ci ha lasciati esterrefatti. C’era di tutto: boe, bottiglie, matasse di cime, lampade cinesi, cassette di polistirolo. Una volta abbiamo avvistato perfino un enorme bombolone di gas che galleggiava indisturbato in mezzo al mare. Sempre in quelle acque nel 2017 abbiamo rotto un timone del trimarano Maserati Multi 70 durante la regata Transpac proprio per una collisione con un oggetto alla deriva. La stessa cosa ci è successa recentemente nell’oceano Indiano durante il record Hong Kong-Londra. Ormai tutti i mari del mondo sono pieni non solo di plastica ma di un’infinita quantità di spazzatura di ogni genere. Non fa eccezione il Mediterraneo: basta farsi un giro su una delle nostre spiagge per rendersene conto. Nei mesi invernali, in mancanza di manutenzione e pulizia, le spiagge si riempiono di rifiuti. Ma il problema non è limitato alla superficie del mare. Sappiamo che il settanta per cento degli oggetti di plastica non galleggia e quindi tre quarti della nostra spazzatura si è ormai inabissata. La causa siamo tutti noi e da noi bisogna partire per fare i conti con questa tragedia. Nel 1930 sulla terra c’erano solo due miliardi di persone, nel 1975 sono arrivate a quattro miliardi, oggi siamo più di sette miliardi e mezzo di persone, molte delle quali vivono in un sistema che induce al consumo frenetico di oggetti sostanzialmente inutili. Ho fatto le mie prime miglia su una barca a vela più di quaranta anni fa, a pensarci oggi era un altro mondo; un bambino di otto anni a bordo di una barca a vela ormeggiata in una rada semideserta del Mediterraneo, con una semplice lenza da pesca a mano, poteva pescare le orate che sarebbero state la cena di tutta la famiglia. Il mare era quasi incontaminato e le coste deserte e selvagge. Il nostro modello di sviluppo è in totale squilibrio con la natura e divora e consuma la terra e le sue risorse in una corsa che non sembra avere nessun senso, nessuna direzione se non quella del profitto a scapito della vita e dei suoi equilibri. La plastica che sta colonizzando il nostro mare è solo l’ultimo dei fenomeni di degrado sotto i nostri occhi. Abbiamo inventato un materiale a prima vista utilissimo: costa poco, è resistente e dura a lungo; però lo abbiamo usato per creare oggetti dalla vita breve: spesso li buttiamo via dopo averli usati solo una volta. Il risultato è devastante; da qualche decina di anni il problema del riciclo e della gestione dei rifiuti ci sta esplodendo tra le mani, non riusciamo a gestire il loro smaltimento se non per una minima parte; troppo spesso i rifiuti di plastica si disperdono nell’ambiente e finiscono in mare. Forse anche perché il mare non è di nessuno e soprattutto ricopre i sette decimi della superficie del nostro pianeta. Spaventa molto pensare che la produzione industriale di oggetti di plastica è cominciata in maniera massiccia solo qualche decina di anni fa. Negli ultimi dieci anni abbiamo prodotto più plastica che negli ultimi cento, ma gli oceani sono già pieni di oggetti abbandonati, frammentati, spezzettati che alla lunga sono destinati a finire nello stomaco dei pesci, degli uccelli e delle tartarughe e quindi nella nostra catena alimentare. Qualcuno dice che nel 2050 nel mare ci sarà più plastica che pesci. In Italia qualche piccolo passo è stato fatto, innanzitutto con la messa al bando dei sacchetti di plastica nei supermercati, poi con quella dei cotton fioc di plastica che dai gabinetti finiscono in mare e sulle nostre spiagge. Purtroppo però sono solo piccoli passi, certamente non sufficienti per risolvere il problema. Quello delle plastiche e delle microplastiche è un problema mondiale e come tale dovrebbe essere affrontato per cercare di limitare i danni. Ancora oggi perfino in California, avanguardia tecnologica super politically correct, alla cassa del supermercato nessuno rinuncia al sacchetto di plastica. Penso che la maggior parte della plastica prodotta sia inutile, e potrebbe essere sostituita da materiali più ecocompatibili o addirittura in molti casi semplicemente eliminata, come per esempio gli imballaggi, le bottiglie di plastica, le cassette di polistirolo. Per vincere questa guerra sarà ovviamente necessario l’aiuto della politica e dei governi che dovranno unire le forze per cambiare nel profondo il modo di consumare della popolazione mondiale. Ma questo cambiamento deve innanzitutto partire da noi, dalla nostra coscienza civile. Dovrà essere una grande rivoluzione culturale che modifichi profondamente le nostre abitudini. Forse è giunto il momento di rendersi conto che ogni piccolo gesto della nostra quotidianità può fare la differenza. Ormai anche bere l’acqua del rubinetto è diventato un gesto rivoluzionario.