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 2018  aprile 21 Sabato calendario

Intervista alla mezzosoprano Cecilia Bartoli: Mi butto su ogni personaggio anima e corpo. E soffro con lui

«Quando tornerò a cantare in Italia? Mah... Possiamo passare alla prossima domanda?».
Che l’opera lirica sia il regno del paradosso, non c’è dubbio. Che uno dei paradossi più paradossali sia che la cantante italiana più famosa nel mondo in Italia non canta, idem. Eppure succede. Cecilia Bartoli, superstar della movida barocca ma capace di arrivare fino a Bernstein, qualche milione di dischi venduti (e non con ’O sole mio, ma con dei Vivaldi dimenticati o dei Gluck minori), in Italia si sente poco. È anche un problema di tempo, certo. Lei ne ha pochissimo. Canta opere (poche), tiene recital (molti), incide dischi (l’ultimo è Dolce duello, dove duetta con il violoncello di Sol Gabetta) ed è anche direttrice artistica del Festival di Pentecoste a Salisburgo che, manco a dirlo, da quando c’è lei va a gonfie vele. L’anno scorso, in quattro intensissimi giorni, ha totalizzato 12.400 spettatori da 44 Paesi. L’intervista, a Parigi dopo una memorabile Alcina di Händel agli Champs-Elysées, serve appunto a presentare la prossima Pentecoste, di cui lei è sicuramente lo Spirito Santo. Dal 18 al 21 maggio il cartellone fittissimo prevede anche il suo debutto come Isabella dell’Italiana in Algeri di Rossini.
Per lei, allo stato attuale della carriera, una parte po’ bassa di tessitura, no?
«No. La canto com’è scritta. È tutta questione di tecnica: si canta con quella. Rossini è difficile ma è scritto bene. Se sai dove mettere la voce, basta aprire lo spartito. Per questo ogni tanto fa bene tornare a Rossini o a Mozart: insegnano a cantare».
Cantante e adesso direttrice artistica, oltre che del Festival di Pentecoste, anche dei Musiciens du Prince, l’orchestra barocca che ha fondato a Montecarlo. Ammetta di essere un po’ bulimica.
«Come diceva Anna Magnani: ci sono artisti egoisti, egocentrici e narcisisti. Ma guai se non ci fossero».
Più difficile cantare o dirigere un Festival?
«Dipende. Certo, la responsabilità è maggiore nel secondo caso, perché come direttrice artistica rispondi anche di quel che fanno gli altri, come cantante solo di quel che fai tu. In più, io dirigo un festival vero».
Che significa?
«Significa che è facile mettere insieme un cartellone di artisti in tournée, magari sotto un titolo suggestivo e generico, tipo Amore o Guerra. Io invece ho scelto un tema molto specifico, 1868, che è l’anno della morte di Rossini. Celebriamo il suo 150° anniversario ma anche i suoi rapporti con alcuni grandi contemporanei come Brahms, Offenbach o Wagner. Arriveranno artisti come Marc Minkowski, Daniel Barenboim, András Schiff, Maxim Vengerov, Rolando Villazón o Jonas Kaufmann. Con programmi pensati e studiati per l’occasione, quindi mai ascoltati».
La direzione di un teatro italiano l’accetterebbe?
«Chi sa? Intanto un festival non è un teatro, perché per un festival non devi accettare compromessi, per un teatro stabile è inevitabile. E poi in Italia ci sono troppe cose che non mi piacciono».
Quali, per esempio?
«Per esempio, la scomparsa o la riduzione dell’attività dei teatri di provincia, che erano fondamentali per i giovani cantanti, che lì si facevano le ossa e il repertorio. E poi, i giovani: quando sento dire “un giovane di 35 anni” mi vengono i brividi. A 35 anni uno dev’essere già in carriera da un pezzo».
Cecilia Gasdia è stata nominata sovrintendente dell’Arena di Verona. Un bel segnale?
«Secondo me, sì. Finalmente si mette e a dirigere un teatro qualcuno che il teatro l’ha fatto. L’opera dev’essere affidata a gente che conosce l’opera. Sembra lapalissiano ma spesso non è così. A un patto, però: che non si chieda all’artista di improvvisarsi manager. Ognuno faccia il suo mestiere».
Ridomando: tornerà in Italia? E stavolta non svicoli.
«Vorrei che fosse chiaro che io amo il mio Paese. E nel mio Paese qualcuno che mi invita c’è. Io non dico di no per principio. Dico che ci devono essere le condizioni giuste. Per esempio, un barocco fatto nel modo giusto, con le sonorità giuste, lo stile corretto, un’orchestra di specialisti e così via».
Si dice che Pereira le abbia offerto Cleopatra nel nuovo «Giulio Cesare» della Scala.
«Vedremo. Mai dire mai».
Ama tanto l’Italia ma vive a Zurigo. Perché?
«Ah, “l’amour, l’amour!” (canta la frase di Carmen, ndr). Mio marito, Oliver Widmer, fa parte della compagnia stabile dell’Opernhaus di Zurigo, che è poi anche il teatro dove ho cantato di più».
A proposito di «Carmen». Ha deciso se un giorno la canterà?
«Sì. E la risposta è no».
Perché?
«Non dubito che l’opera sia favolosa. Però, a guardar bene, dal punto di vista musicale i momenti migliori non spettano a Carmen, ma a Don José oppure a Micaëla. Il personaggio è splendido dal punto di vista drammaturgico, meno da quello musicale. E poi la seduzione di Carmen non emana tanto da lei, ma come gli altri la vedono. Per un’egocentrica come me, non va bene».
Dica, allora, i personaggi che le piacerebbe interpretare, ma che non farà mai.
«Adorerei Don Giovanni. Oppure Otello. Purtroppo non ho il fisico giusto (risata, ndr)!».
Cos’è il quid Bartoli? Cos’è il carisma?
«Non lo so. Non dovete chiederlo a me, ma a chi viene a sentirmi a teatro. Di certo, io mi butto sul personaggio anima e corpo, fino a identificarmi e a soffrire con lui. Quando attacco “Ah, mio cor!” (il lamento di Alcina, ndr), il momento è tremendo per lei, ma lo diventa anche per me. Il vero ritmo dell’aria è il battito del mio cuore. È una gioia dolorosa, certo. Ma sono anche i momenti in cui sei immensamente grata di poter fare quello che fai».