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 2018  aprile 21 Sabato calendario

Le pallottole a Togliatti non travolsero l’Italia

Il 14 Luglio 1948, in una Roma deturpata dalla guerra e oppressa dalla calura, Palmiro Togliatti,segretario del PCI, uscì con la sua compagna Nilde Jotti da una porticina laterale di Montecitorio. Per non disturbare la scorta, assicurarono gli amici; per evitare i giornalisti, insinuarono gli avversari. I due conviventi non erano sposati, e a quel tempo il partito di falce e martello era bacchettone quanto e forse più di quello scudocrociato. Se i due avessero voluto mantenere riservata la loro breve sortita non avrebbero potuto scegliere un momento peggiore. Perché lì davanti li attendeva Antonio Pallante, un esaltato ventenne di idee vagamente nazionaliste, che sparò a Togliatti quattro colpi di pistola. Malgrado la Jotti avesse cercato di proteggerlo, il leader fu colpito tre volte e cadde in una pozza di sangue. Pallante si arrese subito alla polizia, e il ferito fu portato d’urgenza all’ospedale. Subito si diffuse la voce che fosse moribondo o addirittura già morto. 
Togliatti era il venerato maestro del Partito Comunista Italiano. A differenza del suo vice Luigi Longo, non aveva alcuna esperienza di combattente e non aveva partecipato alla Resistenza. Fino al 1944 era rimasto a Mosca, sotto la minacciosa protezione di Stalin. Ma era stata proprio questa lontananza a creargli attorno una sorta di mito. La lunga vicinanza al Pontefice moscovita, gli incarichi ai vertici del Comintern, la sopravvivenza, sia pure a prezzo di un servilismo supino, alle spietate epurazioni del paranoico dittatore, e infine la sua indiscussa abilità politica assistita da una solida conoscenza dei testi sacri del marxismo ortodosso, avevano contribuito a coronare la sua fronte di un’aureola di infallibilità. 
IL RISPETTO
Togliatti godeva del rispetto degli avversari, dell’ubbidienza dei colleghi e della venerazione dei militanti. De Gasperi, che lo stesso Togliatti voleva «prendere a calci con gli scarponi chiodati», definì l’attentato esecrabile e ne fu sinceramente indignato. Tutti i partiti augurarono subito al leader ferito una pronta guarigione. Un auspicio ispirato, se non proprio dalla fratellanza, certamente dalla convenienza. Nessuno sapeva cosa sarebbe accaduto se l’uomo fosse morto.
LA CONDANNA
Malgrado l’unanime condanna e l’evidente matrice solitaria dell’attentato, i comunisti più agitati vollero vedervi un complotto destabilizzante e reazionario. Un’ipotesi assurda, perché la Democrazia Cristiana, dopo il trionfo delle elezioni di Aprile, era saldamente al potere, e chiedeva soltanto tranquillità. Le cosiddette forze conservatrici non volevano né disordini né tantomeno colpi di Stato. Tuttavia l’emozione del momento si coniugò, negli animi dei rivoluzionari delusi, con un istinto di violenta e rabbiosa intimidazione. Scoppiarono disordini in varie città, molte fabbriche furono occupate, qualche caserma fu assalita e vi furono alcuni morti e parecchi feriti sia tra i dimostranti sia tra le forze dell’ordine. Il sindacato proclamò lo sciopero generale, e il ministro dell’interno, Scelba, reagì con le camionette della Celere. Per un attimo si temette la guerra civile.
Era, ovviamente, un timore infondato. Nessuno nel PCI voleva una rivoluzione; e anche chi nel suo intimo l’auspicava, sapeva che lo stesso Togliatti ne aveva vietato persino la pronuncia. Non sappiamo se questa riluttanza dipendesse da un sincero ripudio di ogni spargimento di sangue: da buon comunista, Togliatti giustificava l’uso della forza per il bene della causa. 
IL REALISMO
Tuttavia il suo intelligente realismo lo aveva convinto che una rivolta sarebbe finita male per due ragioni. La prima, che si sarebbe trovato contro la Chiesa, la borghesia, i contadini l’esercito e i carabinieri: cioè i tre quarti del Paese. La seconda, che a Yalta Stalin aveva accettato l’inserimento dell’Italia nella sfera di influenza americana, e intendeva rispettare i patti. Infatti si mangiò l’Europa dell’Est, ma si tenne fuori da interferenze eversive in quella dell’Ovest. I comunisti in Grecia gli disubbidirono, e tentarono il colpaccio: Stalin non si mosse, e furono presto sterminati. Evitando la rivoluzione, Togliatti ubbidiva così alla volontà del padrone, alla necessità politica e probabilmente alla sua stessa coscienza.
L’EROE
Le acque, di conseguenza, si calmarono quasi subito. Gino Bartali vinse una storica tappa al Tour de France, il Paese si raccolse attorno all’eroe, e per un attimo ritrovò una sorta di gioiosa unità. Benché l’importanza di questa vittoria sia stata successivamente esagerata, è indubbio che contribuì se non a pacificare, certamente a distrarre gli animi. In realtà la svolta fu dovuta a tre fattori: le cartucce sparate, che avevano scarsa capacità di penetrazione; il professor Pietro Valdoni, che aveva eseguito tempestivamente l’intervento; e lo stesso Togliatti che, appena ripresi i sensi, invitò con voce debole ma con volontà ferma tutti i militanti alla calma. Bartali vinse il Tour, e fu complimentato dall’ Unità, che poi gli tolse il sostegno quando il campione si proclamò devotissimo al Papa e sfilò penitente in varie processioni. Il sindacato si spaccò, perché i cattolici avevano disapprovato l’iniziativa unilaterale e sconsiderata della componente comunista. Scelba sostituì le camionette con le denuncie alla magistratura. Pochi furono comunque i processati, pochissimi quelli condannati, e solo gli assassini – e nemmeno tutti – finirono in prigione: lo stesso Pallante ricevette una pena relativamente mite. 
LA RICOSTRUZIONE
L’Italia intendeva cominciare in pace il periodo di ricostruzione che sarebbe culminato, dieci anni dopo, nel famoso miracolo economico. Togliatti, perfettamente guarito, riprese la sua attività in Parlamento. Valdoni – scrisse Indro Montanelli gli mandò la parcella e l’ingrato paziente gliela onorò con un biglietto di accompagnamento un po’ brutale: «Eccole il saldo, ma sono denari rubati». Al che il grande chirurgo avrebbe risposto, con perfido aplomb aristocratico: «Grazie per l’assegno. La provenienza dei fondi non mi interessa». Non era vero, e nemmeno verosimile. Valdoni, – ricorda il Prof Tommaseo Ponzetta, uno dei suoi allievi più brillanti – non volle una lira. In realtà ci fu un epilogo ben più grottesco.
La costola colpita dal proiettile era stata asportata e gettata nella spazzatura. Un assistente di Valdoni, più per ricordo che per feticismo ideologico, la recuperò furtivamente, e alcuni anni dopo la affidò a un frate, senza nominarne l’antico portatore, affinchè avesse una sistemazione cristiana. Il frate fece poi sapere che era stata collocata in una chiesa, tra le reliquie di alcuni beati.