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 2018  aprile 21 Sabato calendario

L’allenatore che ha insegnato all’Inghilterra il bello del calcio

Ai genitori di Arsene Wenger nell’Alsazia dei primi anni 60 piaceva diversificare: gestivano un bistrot e una carrozzeria. Lui da ragazzino dava una mano, serviva anche ai tavoli all’occorrenza e guardava tutto il calcio possibile in tv, che allora non era molto. Soprattutto amava studiare le reazioni degli avventori del locale di famiglia davanti alle partite, capire quello che piaceva al pubblico dopo una bottiglia di vino rosso, intuire ciò che davvero cercava tra le nuvole di fumo in quelle immagini in bianco e nero di partite trasmesse per lo più in differita. 
Nella risposta che il giovanissimo Wenger si è dato allora, c’è tutto il senso della sua storia di allenatore, spesso considerato troppo algido e intellettuale, ma in realtà ben immerso nella nuova cultura di massa prodotta dal calcio: il popolo, oltre a vincere, chiede la bellezza del gesto tecnico, l’armonia dell’insieme, perché ama il paesaggio fuori dal finestrino del suo lungo viaggio da tifoso, non solo la meta.
A questa impronta, Wenger ha sempre tenuto fede. Ma non è certo stato né l’unico né tanto meno il primo. La sua unicità è quella di aver gettato quel seme su una terra straniera, di nome e di fatto. Perché quando l’Arsenal ingaggiò nel 1996 un tecnico nemmeno troppo giovane, poco conosciuto e soprattutto francese, l’accoglienza fu fredda. «Mr Nobody», Signor Nessuno, come fu ribattezzato allora, a fine stagione lascerà dopo 22 anni la squadra di North London, con la certezza che nulla da quelle parti è più come prima. E che continuare ancora avrebbe tolto qualcosa al suo cammino, perché spesso il destino dei pionieri è quello di rimanere imprigionati dalla propria visione. E di trovarsi il cartello «Wenger out» un po’ dappertutto.
L’impatto dell’uomo di Strasburgo sul calcio inglese non ha cambiato solo il «Boring, Boring Arsenal», noioso nel suo modo antico di giocare. Ma tutto il football. Perché Wenger, con buona pace degli inglesi, non era uscito dal nulla: difensore di livello mediocre, si era laureato in Economia, aveva il senso degli affari appreso in famiglia e una solida base scientifica, utilizzata per la preparazione atletica e per l’alimentazione dei suoi calciatori. Debuttante al Nancy grazie alla raccomandazione del padre di Platini e poi tecnico rampante al Monaco con Hateley, Hoddle e soprattutto Weah, ha avuto anche un ruolo chiave nella rinascita del calcio francese. E prima di arrivare a Londra ha trascorso anche un anno in Giappone, apprendendo altre tecniche per la gestione psicofisica dell’atleta. Quanto basta per farne un professore.
Ma all’Arsenal ci finì un po’ per caso, perché gli altri nomi erano Venables e Cruyff, ma soprattutto Bobby Robson: il presidente del Porto, Pinto Da Costa, non voleva lasciar partire l’allenatore inglese e l’Arsenal puntò su Wenger. Uno snodo che ha cambiato il calcio europeo, anche perché Robson poi si liberò e andò al Barcellona, portandosi appresso un giovane assistente di nome Mourinho. Che poi lo Special One sia diventato anche il nemico numero uno di Wenger, è un’altra storia. 
Quella di Arsenio racconta di tante vittorie, come i due «Double» del ‘98 e del 2002, di un’altra Premier indimenticabile nel 2003-2004 (imbattuto). Di una lista lunghissima di giocatori scoperti, plasmati, migliorati (Thierry Henry, l’uomo simbolo). Di sconfitte, che negli ultimi anni hanno logorato il rapporto con l’Arsenal e la sua gente. E nel complesso di un’accelerazione del calcio inglese verso la modernità, anche attraverso le strutture (vedi l’Emirates Stadium) e il business. Ma soprattutto attraverso il gioco e i giocatori, meglio se stranieri. Nel bistrot della Premier non è solo cambiato il menu, ma anche il palato del pubblico. La missione è compiuta, garçon. Tutto il resto è mancia.