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 2018  aprile 21 Sabato calendario

Niente libertà per la Liberia, la svolta autoritaria di Weah presidente

È tornato Weah, è tornato Weah, e qualcuno in galera finirà. Parafrasando un famoso coro delle tifoserie anni Novanta, il Comitato internazionale per la protezione dei giornalisti (Cpj) lo stampa a chiare lettere: in Liberia, c’è un problema di libertà. E lo stesso dice un rapporto dell’Onu appena pubblicato: pur di zittire un giornale troppo critico col governo, il Front Page Africa, il partito di George Weah ha sporto causa per diffamazione e chiesto un risarcimento mostruoso di quasi due milioni di dollari (in un Paese dove il reddito medio è di 45 dollari al mese). L’Unione della stampa liberiana s’è riunita la scorsa settimana, «allarmata» per l’aumento di minacce, intimidazioni, molestie ai cronisti. E anche il corrispondente della Bbc, Jonathan Paye-Layleh, qualche giorno fa ha dovuto lasciare Monrovia denunciando gli avvertimenti ricevuti: «Ho paura che il presidente ordini il mio arresto – spiega il giornalista inglese – solo perché mi sono schierato contro di lui e ho chiesto conto del tribunale speciale per i crimini di guerra, non ancora istituito». Da Weah sono arrivati solo attacchi verbali, ma ora che le accuse alla tv di Londra sono pubbliche e legittimate dal capo dello Stato, «che cosa potrebbe succedermi in un qualche angolo» per colpa di qualcuno delle sue migliaia di sostenitori? 
Liberia di stampa. Per un Paese con quel nome, primo rifugio degli schiavi liberati nell’Ottocento, il cartellino rosso ai giornalisti era l’ultima cosa che ci s’aspettava. Specie se ad alzarlo oggi è un ex pallone d’oro e «quarantatreesimo miglior calciatore del XX secolo» (parola di Pelé) che ha giocato tutta la sua vita per i diritti umani, costruendosi una carriera politica che tre mesi fa l’ha portato finalmente alla presidenza. Uno che inizia sempre i suoi discorsi in dialetto kru invocando «Amandla!», che la forza sia con voi, l’urlo dei neri liberati. E che sul celebre motto mandeliano «una gente, una nazione, un destino», sulla retorica sudafricana della Rainbow Nation ha convinto il 61 per cento della Liberia a votarlo, ponendosi come liberatore dopo decenni di vita politica tormentata, due guerre civili che hanno fatto 250 mila morti, l’incubo dell’ebola e di troppe piaghe che piazzano il Paese al 177° posto (su 184) nelle classifiche mondiali dello sviluppo.
Cresciuto con la nonna in una bidonville di Monrovia e diventato famoso solo col calcio, scarso oratore, accusato di saper poco di politica e d’economia (chi l’ha preceduto, Ellen Sirleaf, ha studiato a Harvard e ha vinto perfino il Nobel: lui, come maestri politici e di vita, indica il suo ex presidente Berlusconi e il suo ex allenatore Wenger), George Dabliù ha sempre avuto dalla sua il coraggio dei gol impossibili: nel ‘96, quand’era al Milan, si schierò contro il dittatore Taylor e chiese l’intervento dell’Onu; nel 2000, su pressione della stampa britannica, ottenne da Taylor la liberazione di quattro giornalisti inglesi accusati di spionaggio; nel 2002, prometteva una corte internazionale che punisse per i crimini di guerra.
Il Weah presidente gioca tutta un’altra partita: come vice, s’è scelto proprio l’ex moglie di Taylor (giustificazione: «Chi non ha partecipato alla guerra civile?...»); sul tribunale speciale, ha cambiato radicalmente idea; le testate che glielo fanno notare, come la Bbc, vengono messe sotto processo o alla porta… «Vi garantisco il 200 per cento di libertà d’espressione e di stampa – si difende il presidente —. Come può dare un giro di vite alla libertà di parola un uomo dal cuore tenero e dalle umili origini come me? Dico solo che i media dovrebbero ricordare anche i risultati raggiunti dal mio governo…».
El Negro fatto di roccia, lo chiamava Maradona: anche il cuore tenero, dicono i rivali, s’è fatto di pietra.